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pubblichiamo alcuni degli scritti inerenti lo scautismo che Claudio ha prodotto nel corso degli anni nelle riviste associative e non solo


  1) Riandando con la memoria

 

2) La nascita dei “Gruppi e Ceppi Scout Cattolici” a Treviso  
  3) Monsignor Giovanni Bordin   4) Un amico degli scouts  
  5) Estote Parati   6) Ritratto di Don Rino Olivotto  
  7) Europa e Scouts d’Europa   8) Ricordo di Checco  
  9) Ricordo di Luciano Furlanetto per gli amici Ciano   10) Altro ricordo scritto di Claudio su Ciano  
  11) Il valore educativo del disegno nello scautismo      

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



Dal libro "100 anni di scautismo cattolico a treviso"
capitolo delle testimonianze riportiamo il testo scritto da Claudio

RIANDANDO CON LA MEMORIA






Devo scrivere un po’ di me per far capire la drammaticità degli avvenimenti intercorsi nei primi anni ‘70 in ambito scautistico. Sono testimonianze storico-personali.
Ho pronunciato la Promessa scout il 4 gennaio 1954 nelle mani dell’allora capo riparto Gino Piazza. La sera precedente avevo partecipato alla Veglia d’armi nella chiesa di santa Maria del Rovere, veglia guidata dall’indi menticabile don Ugo de Lucchi.
l mio sentiero scout fu sereno e proficuo. Divenni csq. il 6 febbraio 1955, fondando la sq. Castoro. L’anno successivo guidai i Castori in un campo di sq. in quanto non poté essere svolto quello di riparto dal momento che Checco, succeduto al fratello, fu impegnato con esami di diploma. Durante la missione per conquistare la specialità di ciclista, assieme al mio compagno di viaggio individuai nella valle di san Lucano, nei pressi di Taibon agordino, un posto da campo che sarà utilizzato nei due anni seguenti, 1957 e ‘58.
Passai in clan in ottobre del ‘58, clan che allora era cittadino perché riuniva tutti i rover dei relativamente pochi riparti di allora.
Purtroppo, il 23 aprile del 1959 don Ugo morì, lasciandoci veramente smarriti. Ma a settembre arrivò don Giovanni Bordin che, con tutt’altro stile, lo sostituì.
Nel 1961 il Gruppo TV 1°, che era nato nel 1955 per riunire i vari riparti che avevano vissuto una vita propria e scollegata, si sdoppiava e nasceva il nostro TV 2° con pochissime unità (santa Maria del rovere, santa Bona) ma con grandissimo entusiasmo che produsse, in breve tempo, un’espansione ragguardevole.
Agli inizi di novembre divenni responsabile della sq. libera di san Pio X, che diventerà Riparto nell’autunno successivo.
Nel 1962 partecipai, assieme al compianto Ciano Furlanetto, al campo scuola di 2° tempo a Colico, sul lago di Como. Il capo campo era nient’altro che quel Salvatore Salvatori che aveva guidato, assieme ad altri capi storici come Osvaldo Monass, Gino Armeni, Fausto Catani, la rinascita dell’ASCI nel 1944.
Dopo lo svolgimento delle tesine, nel 1964 ottenni il brevetto Gilwell proprio da Gino Armeni, allora commissario alla Branca E. Ero molto fiero perché il brevetto segnava la mèta della mia formazione scout e sanciva la mia totale adesione agli ideali che avevo respirato fin da ragazzino.
Ne elenco in disordine solo alcuni:
- la meraviglia della vita all’aperto che ti fa sentire attivo, utile, forte e libero da certe imposture sociali e che ti fa conoscere da vicino il Creato di cui tu stesso fai parte.
- la tecnica scout che ti sostiene nelle avventure, ma anche nei momenti di pericolo, che ti rende utile al prossimo.
- l’uniforme che ti identifica e che ti richiede talvolta forza d’animo e sempre coerenza.
- il civismo che non è solo corretto comportamento nei confronti degli altri e rispetto per ciò che è pubblico, ma anche senso di appartenenza ad una nazione, ad un popolo, ad una storia, ad una cultura, ad un modo di sentire e valutare.
- lo stile che vuol dire comportamento aperto senza eccedere e riservato senza infingimenti e ipocrisie.
- la comunità gioiosa ed equilibrata.
- l’aiuto fraterno sincero e disinteressato.
- lo spirito di servizio accettato liberamente fin dalla pronuncia della promessa e scelto in età adulta con profonda adesione agli ideali evangelici.
- la spiritualità vissuta con la mente, con lo spirito ed anche con il corpo perché tutto è dono di Dio: l’intelligenza, la sensibilità, il fisico.
- l’osservanza della Legge e della promessa.
- la cavalleria e la cortesia nei confronti delle ragazze.
- l’autonomia della propria identità maschile.
- l’ammirazione e l’affetto per B.P. uomo straordinario come soldato (cfr le sue innumerevoli avventure) e geniale come educatore.
Nel 1968 scoppiò in Francia prima, in Germania poi, dopo la cosiddetta contestazione giovanile, passata alla storia anche come il “68”. Dapprima confuso poi più articolato, il movimento ebbe anche momenti di forte violenza, con occupazioni di università, scioperi di studenti ed operai, scontri con la polizia, contestando tutto e tutti. In particolare si criticò profondamente tutto ciò che poteva limitare la libertà individuale, diventata una sorta di Assoluto a cui tutto doveva essere sottomesso, a partire da ogni forma di autorità. Nulla doveva più essere vietato né in campo morale né civile. Famosa l’espressione “vietato vietare”. Il primo ad essere colpito fu il concetto di autorità. L’onda d’urto colpì dapprima l’università, poi la famiglia, la chiesa, infine tutte le forme di gerarchia, comprese quelle delle associazioni giovanili, compreso lo scautismo.
Fu un movimento così profondo al punto che stiamo ancora subendo le sue aberrazioni, come l’odierna crisi della famiglia drammaticamente insegna. In Italia si può dire che la contestazione nasca con l’occupazione della facoltà di Sociologia di Trento per poi espandersi alla Cattolica di Milano e un po’ alla volta anche alla scuola superiore.
Per quanto riguarda lo scautismo, la crisi si insinuò un po’ alla volta. E un po’ alla volta dovemmo subire, io e i capi di allora, un’infinita serie di enormi falsità sia sotto il profilo psicologico che metodologico. Sembra impossibile che ci sia stato qualcuno che in buona fede credesse a tali bugie! Eppure ce ne furono tanti, alcuni dei quali per ignoranza o per desiderio di mettersi in mostra, o per ambizione personale.
Tutto quel mio mondo di ideali concreti ed attuati fu scosso. La prima azione fu la conduzione femminile dei branchi. Fu detto che una donna sarebbe stata più adatta a guidare un gruppo di bambini! E la figura di Akela con tutto ciò che ne consegue? Il fatto vero era che parecchi rover romani non apprezzavano il servizio in branco, non avendo capito la bellezza pedagogica-educativa del Libro della Jungla. Anzi Kipling fu considerato un autore imperialista, per cui nacquero le più strampalate metodologie di alberi, fate, gnomi, ecc. Dal momento che le giovani capo branco, le famose “cheftaines” letteralmente capo-tana, scopiazzate dal contemporaneo scautismo francese, anch’esso ovviamente in crisi, non avevano un ambiente di formazione, si pensò di inserirle in un clan, come se non esistesse un fuoco di scolte! Da lì la nascita delle unità miste di terza branca, i Flan, nome, a mio parere, assolutamente insensato. Da quel momento fu tutta una corsa verso la assurdità e la falsità psicologica degli educandi. Nacquero i Branchi misti, con i lupetti e le lupette, nacquero i riparti misti, addirittura, nei primi anni, con le squadriglie miste. Mi ribolle il sangue ricordando come possa essere stata contrabbandata come una grande conquista il fatto di avere in sieme ragazzine e ragazzini con la speciosa giustificazione che già tanto a scuola erano insieme e anche in famiglia. Come se non si sapesse quanto un ragazzo senta il desiderio di vivere in quell’età con i suoi coetanei, cimentarsi con loro, avere la possibilità di vivere avventure da grandi e non cincischiare con le ragazzine. Eppure la stampa associativa di allora, “L’esploratore” riportava grandi titoli del tipo: “AGI+ASCI= AGISCI” per preparare un po’ alla volta la nascita di un’unica associazione.
Io ero Capo Riparto e soffrivo a dover combattere contro quella che doveva essere un aiuto educativo ed invece mi metteva in continua difficoltà.
In parallelo a quanto scritto sopra, ecco le proposte o le critiche al “mio” scautismo:
1. la vita all’aperto era deviante, perché allontanava i giovani dai veri problemi sociali, bisognava abolirla, ”Lo scautismo lascia il bosco per entrare in città” era lo slogan.
2. Un branco di Lupetti di Conegliano partecipò, guidato dal suo Akela, ad un picchettaggio in una fabbrica, forse la Zoppas.
3. la tecnica scout viene ridicolizzata: cosa serve imparare il morse quando ci sono le radio trasmittenti? Senza capire lo sforzo educativo richiesto ad un ragazzino per memorizzare e la soddisfazione di riuscire a comunicare con gli altri: una sorta di magico mondo segreto.
4. l’uniforme è colonialista e ricorda la prevaricazione degli Inglesi sui popoli di mezzo mondo. Inoltre nasconde le differenze di classe: in uniforme non si riconosce un bambino di famiglia povera da uno ricco, mentre è importante far capire fin da piccoli che bisogna battersi per l’uguaglianza sociale! E poi in borghese nessuno riconosce che sei uno scout.
5. L’alzabandiera al campo va abolita perché è un retaggio fascista e nazionalista.
6. I ragazzi devono esprimersi liberamente, senza codici particolari di comportamento.
7. La comunità deve essere assolutamente spontanea: non esiste un capo, non esiste la Corte d’Onore, ma il Consiglio della Legge, una sorta di assemblea generale di tutto il riparto. Il Capo è una sorta di “Unus inter pares”. Non deve esistere “Un’educazione direttiva”. Tutte le decisioni, a qualsiasi livello, devono essere prese in forma assembleare. Non esiste il capo, ma solo una sorta di porta voce dell’assemblea.
8. Quando il riparto è misto, non esiste “UN” capo ma la “Diarchia” cioè la direzione comune di capo donna e capo uomo. Non succede così anche in famiglia?
9. Lo spirito di servizio viene stemperato in modo impressionante con la assurda divisione dei riparti in due età: 12-14 ranger; 14-16 pionniers. I quali ultimi fanno per lo più viaggi di tipo turistico, in barba al concetto del csq. che aiuta i suoi squadriglieri.
10. La spiritualità deve essere una libera scelta: non ha nessun valore educativo la preghiera; la messa al campo, se c’è, è facoltativa. Si arrivò alla cancellazione della frase “Con l’aiuto di Dio” nella formulazione della promessa per non turbare la libertà degli educandi.
11. Degli articoli della Legge alcuni perdono importanza, come quello dell’obbedienza agli ordini (il 7°), il 10°; ma tutta la Legge, come la Promessa assumono un’importanza molto relativa.
12. L’articolo 5° (cortese e cavalleresco) perde significato dal momento che le ragazze sono dei semplici squadriglieri che bisogna richiamare se necessario anche con parole e gesti forti: non sono l’altra metà del mondo da scoprire un po’ alla volta nella loro genuinità e freschezza.
13. Per vivere insieme alle ragazze nello stesso riparto o addirittura nella stessa squadriglia i ragazzi devono rinunciare a molto della loro genuinità maschile: i giochi fatti di forza fisica, di coraggio, di spirito di avventura devono essere addolciti per permettere anche alle ragazze di parteciparvi. Così le ragazze devono un po’ adattarsi allo spirito maschile: gli uni e le altre devono rinunciare a qualcosa della loro identità proprio nell’età in cui si pongono le basi dell’età adulta dove ci saranno uomini veri e donne vere.
14. B.P. venne considerato un militarista, un colonialista, un uomo che non poteva aver fatto nulla di buono. Lo scautismo così com’era stato vissuto fino a quel momento doveva essere rifiutato e fondarne uno nuovo aderente alla società cambiata: all’uomo della frontiera doveva essere sostituito l’uomo della lotta di classe.
Gli ultimi anni 60 ed i primi 70 furono caratterizzati da un continuo logorio sia a livello nazionale che locale, con continue riunioni tra i fautori del nuovo corso e coloro che giudicavano lo scautismo di B.P. ancora valido ed efficace. L’ultima assemblea generale dell’ASCI si svolse, se non erro, nel 1969 a Roma. Fu una cosa triste: del vecchio e genuino scautismo non era rimasto quasi niente. Fu convocata dall’allora presidente, Salvatore Salvatori, il mio capo campo. Erano passati solo 8 anni, eppure il vecchio leone non contava più niente. L’incontro si doveva svolgere in borghese: noi scrivemmo un telegramma di protesta e ci recammo a Roma in uniforme. All’ingresso della “Domus pacis” c’era Salvatori che quasi pianse vedendoci in uniforme. Evidentemente non era riuscito ad imporsi sui nuovi smaniosi di novità.
L’assemblea si svolse senza ordine alcuno. Una mozione fu votata di notte, quando la stragrande maggioranza era andata a letto. Di lealtà ne respirammo veramente poca. Tornammo a casa con l’esatta sensazio ne che ormai eravamo agli sgoccioli.
Si giunse infine all’aprile del 1974.Stranamente il direttivo dell’ASCI e quello dell’AGI si erano riuniti nella stessa struttura, una delle tante di Roma. Così, stranamente, entrambi i direttivi votarono lo scioglimento delle rispettive associazioni e la nascita della nuova, l’AGESCI.
Dopo tale risultato, tutti si riunirono insieme e la nuova assemblea dopo la comunicazione dei rispettivi responsabili (io ricordo solo il maschile che era la buon’anima di Bruno Tonin, di Vicenza), acclamò la nuova nascita con l’esortazione “bacio, bacio!!” che avvenne tra i due responsabili. Che bello!.
Non ci fu un’assemblea, non furono coinvolti i capi brevettati, non si lasciò il tempo alle realtà locali di discuterne: un colpo di mano vergognoso!.
Noi del Treviso 2° e una parte delle ragazze del Treviso 1° non accettammo il fatto compiuto: a ottobre non versammo la quota del censimento e con quei soldi fondammo un’associazione “Gruppi e Ceppi Scout Cattolici Treviso”. Come Treviso, altre realtà non aderirono all’AGESCI come alcune di Roma, di Jesi, di Palermo, ecc. Nell’aprile del 1976 alcuni capi romani fondarono, di fronte ad un notaio di Roma l’Associazione Guide e Scouts d’Europa Cattolici, aderenti alla Federazione dello Scautismo Europeo.
A settembre anche la realtà trevigiana aderì alla nuova associazione che svolse il primo campo scuola nel novembre dello stesso anno a Montegemoli, in Toscana.
Questo è quanto la mia memoria mi riporta! Salvo errori ed omissioni!

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Da Azimuth 1-2011
La nascita dei
“Gruppi e Ceppi Scout Cattolici” a Treviso

Claudio Favaretto

Gli ultimi anni di vita dell’ASCI, la gloriosa associazione nata nel 1916, furono caotici e confusi. Molti Capi facenti parte del Gruppo Treviso 2°, me compreso, erano entrati nell’associazione ancora da ragazzini, ma ora, diventati Capi responsabili di altri ragazzi, non riuscivano più a capire cos’era rimasto di quella proposta educativa che aveva entusiasmato loro e tanti altri dopo di loro. Ci opponemmo con tutte le nostre forze contro la deriva dello scautismo cattolico di quegli anni, sia in sede locale (Commissariato Provinciale, Commissariato Regionale), sia a livello nazionale.
All’ultima Assemblea Nazionale dell’ASCI, dopo aver mandato un telegramma di protesta, partecipammo, forse noi soli di Treviso, in uniforme. La convocazione, infatti, parlava di intervento in borghese, quasi ci si vergognasse della nostra uniforme!
Comunque le cose precipitarono: furono assunte via via decisioni per noi del Treviso 2° veramente aberranti. Elenco le più importanti:
1) conduzione femminile dei branchi;
2) clan misti;
3) precisa scelta politica;
4) critica all’uniforme;
5) critica alla Legge Lupetto ed Esploratore;
6) gestione collettiva delle unità;
7) abolizione della squadriglia di B.-P. diventata un semplice gruppo spontaneo;
8) scelta cristiana vista solo come una delle ipotesi;
9) abolizione dell’alzabandiera perché la bandiera era un simbolo nazionalistico.
Mi soffermo solo un attimo solo sul primo punto dell’elenco. Per noi, e non solo per noi, ovviamente, la figura di Akela nel metodo lupetto è insostituibile e per il bambino diventa uno dei modelli da seguire. Come si poteva proporre una figura femminile?
Come ben si sa, malgrado tutte le opposizioni provenienti da ogni parte d’Italia, i Consigli Generali dell’ASCI e dell’AGI il 4 maggio 1974, alle ore 23,50 approvarono l’unificazione delle due associazioni dando vita all’AGESCI.
Noi del Treviso 2° non accettammo mai questa decisione che era frutto di un incontro di vertice: infatti non ci fu un referendum nemmeno tra i capi brevettati nazionali. E io ero uno fra questi. Fu una decisione presa sopra le nostre teste e contro la nostra volontà. Ma non ci arrendemmo. Mentre si cercava una collocazione più grande, ben consapevoli che una realtà locale, sia pur forte (eravamo, censiti, 350), non sarebbe stata in grado di sopravvivere, il nostro Gruppo, di concerto con il Ceppo ex-Agi Treviso 1°, diede vita ad una Federazione di “Gruppi e Ceppi Scout Cattolici – Treviso”. Era il 14 ottobre 1974.
Ci dedicammo con enorme entusiasmo e con tutte le energie disponibili a far funzionare questa nuova struttura.
Così furono distribuiti i compiti: uniformi, statuto, stampa, economia, formazione Capi. Tutto doveva essere costruito e messo in condizione di funzionare.
Questa Federazione durò due anni, mentre il Capo Gruppo, l’indimenticabile Francesco Piazza, cercava agganci a livello nazionale. Trovò alleanze in Piergiorgio Mingo di Jesi, Sergio Durante e Attilio Grieco che gli parlarono della Federazione dello Scautismo Europeo.
Il Direttivo della nostra Federazione di Treviso, dopo aver esaminato lo Statuto degli Scouts d’Europa, convenne che questa era finalmente la nostra collocazione, che non ci chiedeva di rinunciare a nessuno dei valori in cui credevamo, anzi ne aggiungeva uno di importante: l’Europeismo, cioè la dimensione internazionale, tanto cara a B.-P. E dall’ottobre del 1976 facciamo parte, noi tutti, dell’Associazione Guide e Scouts d’Europa Cattolici.

 

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Da Azimuth 6-2011
Monsignor Giovanni Bordin
Claudio Favaretto

Eravamo smarriti, noi adolescenti e giovani Scout di Santa Maria del Rovere, dopo l’improvvisa morte del nostro amatissimo assistente, don Ugo de Lucchi, avvenuta proprio il giorno di san Giorgio del 1959. I campi estivi si erano svolti quasi sotto il peso di questa grave perdita, ma bisognava ora rivolgersi al futuro, nella speranza che fosse inviato in parrocchia un sacerdote in grado di sostituirlo, almeno in parte.
Giungevano voci che sarebbe arrivato un giovane sacerdote, conoscitore di musica, ma assolutamente digiuno di Scautismo. Bisogna sapere che don Ugo era un grande intenditore di musica e che molti di noi erano sia cantori che Scout.
Eravamo, perciò, un po’ delusi, ma desiderosi di incontrare il giovane prete, che giunse, finalmente, uno dei primi giorni di ottobre.
Ci piacque subito: corpo robusto, faccia rotonda, sorriso aperto, cordialità contagiosa. Si rese subito conto che veniva a raccogliere una grande eredità spirituale lasciata da don Ugo, e con umiltà cercò di capirla ed interpretarla in modo molto rispettoso.
Un po’ alla volta entrò nello spirito e nella prassi dello Scautismo, così che lentamente divenne il nostro punto di riferimento. Una cosa ci stupì subito, oltre all’umiltà: la sua grande disponibilità. Non si tirò mai indietro, anche di fronte a richieste che forse potevano arrecargli dei fastidi. Ad esempio, non avendo mai dormito sotto tenda, la novità poteva essere poco gradevole: egli reagì facendosi fare una tenda alta, robusta e larga, in cui si potesse muovere agevolmente, data la sua massiccia corporatura.
L’inconsueta realizzazione fu ironicamente battezzata dagli Scout presenti al suo primo campo “caponera”!
Fu un uomo di profondo equilibrio e di grande saggezza, che prodigò nei suoi contatti con capi e ragazzi, quando andavano a trovarlo per un consiglio o per un conforto. Prima di prendere delle decisioni importanti rifletteva, ma una volta decisa la strada, non aveva esitazioni di sorta. Così ci sostenne nei momenti complicati della nostra vita Scout: allo sdoppiamento del Treviso 1°, mediante il quale nacque il nostro Treviso 2°, al rifiuto di confluire nell’Agesci appena formata nel 1974, per appoggiare l’idea della nascita dei “Gruppi e Ceppi Scout cattolici di Treviso” confluiti poi nell’Associazione Italiana Guide e Scout d’Europa Cattolici” nata nel 1976, alla crisi che investì lo stesso Treviso 2°, da cui nacquero gli attuali gruppi presenti in città. La sua parola, la sua saggezza furono fondamentali nella ricerca di nuovi equilibri che la storia, in qualche modo, imponeva.
Dopo alcuni anni di permanenza in parrocchia, don Giovanni scelse di entrare tra i Sacerdoti Oblati perché gli sembrava di fare troppo poco rispetto a quanto aveva sognato per la sua vocazione. In questa veste fu richiesto dal Vescovo di allora di dirigere la “Vita del Popolo”, il settimanale diocesano. Egli non aveva dimestichezza con quel mondo, ma accettò come sempre con umiltà, circondandosi, però, di una squadra di collaboratori molto validi che garantirono un vero successo nella diffusione del settimanale nelle famiglie della diocesi.
Come tutti, aveva delle piccole défaillances, alcune anche involontariamente spiritose. Come quando disse, durante un’omelia al campo, che ”uno Scout deve farsi un bel segno di croce, la sera, prima di addormentarsi, ed un altro, al mattino, prima di svegliarsi”. Queste piccole manchevolezze ce lo rendevano ancora più vicino. Ricordo che nel 1964, in occasione di un Campo Nazionale Rover, raggiungemmo con la mia macchina, Forcella d’Acero, nel Parco Nazionale d’Abruzzo, dove avremmo dovuto incontrare il nostro Clan. Naturalmente l’appuntamento andò a vuoto: non c’erano ancora i telefonini! Allora decidemmo di lasciare la macchina sul ciglio della strada per inoltrarci nel bosco, alla ricerca di un sito dove piantare la tenda, visto che ormai stava imbrunendo. Percorse alcune centinaia di metri, incontrammo un solitario cane pastore abruzzese, che ci ringhiò contro; ed egli, postosi velocemente dietro di me, mi disse sottovoce: “ ci vorrebbe un bastone”. Per fortuna il cane proseguì il suo cammino e noi il nostro. Raggiungemmo finalmente una radura, circondata da enormi faggi, che fu di nostro gradimento. Prima di piantare la tenda, però, don Giovanni volle celebrare la messa, utilizzando gli zaini come base per l’altare. Ricorderò sempre quella messa inconsueta. Il celebrante si girava verso di me, alla fine di ogni preghiera, per sollecitare la mia risposta. Ma poco prima del Canone, mi chiese, sottovoce, se desideravo comunicarmi. Eravamo soli per un raggio di chilometri, ma la domanda era rispettosa, perciò posta a bassa voce!
Don Giovanni accompagnò lungo il cammino della vita quei numerosi adolescenti che lo accolsero nel 1959. Egli celebrò i nostri matrimoni, battezzò i nostri figli, ricevette le nostre difficoltà e i nostri dubbi: è stato veramente una guida per noi.
Vent’anni fa, fu incaricato dal Vescovo di dirigere la parrocchia di Riese Pio X. Che strano: era stato mandato proprio nella parrocchia da dove era proveniva e dove era sepolto quel sacerdote ch’egli aveva sostituito: don Ugo de Lucchi. Anche nella nuova realtà don Giovanni seppe profondere, malgrado le malattie, tutta la sua carica umana e spirituale che erano parte della sua straordinaria personalità. L’ho avvertito durante il funerale quanto fosse benvoluto: perché chi fa il bene non può che essere amato. E lui di bene ne ha fatto molto, e di questo sarà da Dio sicuramente ricompensato. Ed ora riposano in pace vicini, i due nostri cari assistenti.

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Da Azimuth 4-2012
Un amico degli scouts
Claudio Favaretto

“Che uccello è la mangusta?” Questa domanda spiritosa e improvvisa ci fu rivolta dal vescovo in visita al campo della Valle solitaria che si stava svolgendo non lontano dal passo della Mauria, nel 1964. L’assistente ed io l’avevamo ricevuto, come si conviene, con il riparto schierato in quadrato. Poi il Vescovo volle visitare il campo. Era stato negli anni giovanili assistente Scout in una parrocchia di Vicenza, per cui sapeva bene come valutare un campo. Allora le squadriglie, dopo il “crack” raggiunsero i propri angoli per accogliere l’illustre ospite. Dapprima si presentarono i Gheppi. Come si sa, il grido di squadriglia è proprio un grido, non una comunicazione, per cui chi lo sente non capisce proprio nulla. Così il vescovo, che mi chiese: “Cosa hanno detto?” Al che risposi. “Gheppi, nel volo sicuri!”. Dopo aver salutato e spronato la squadriglia a ben operare, raggiungemmo l’angolo dei Picchi. Anche qui la presentazione di squadriglia fu indecifrabile, per cui dovetti spiegare che il loro motto era “All’invito del bosco!”. Soddisfatto, il vescovo fu accompagnato all’angolo delle Manguste che si presentarono con un incomprensibile “Siamo sempre ardimentose!”. Allora, rivolto verso di me, chiese delucidazioni, in quanto, rispetto ai primi due animali, la mangusta non era certo un volatile. Ricordo questo episodio per far comprendere quanto il presule fosse cordialmente vicino allo Scautismo, come dimostrò in tante altre occasioni, poiché ci venne a trovare pressoché ogni anno. Qualche anno dopo, al campo dell’”Airone”, quando mi scorse mi disse: ”Ti vedo sempre!” e mi strinse forte la mano. Monsignor Mistrorigo resse la diocesi di Treviso per un lungo periodo, dal 1958 al 1988, nel periodo storico, perciò, del Concilio Vaticano II a cui partecipò come Padre Conciliare. Fu un grande propugnatore delle idee conciliari e un fervente sostenitore della Riforma Liturgica, che anch’egli contribuì a disegnare in qualità di esperto. Ricordava con una certa fierezza che durante il Concilio nei banchi a lui vicini sedevano il vescovo Albino Luciani e il vescovo Karol Wojtyla, che sarebbero diventati da lì a poco pontefici.
Proprio con Giovanni Paolo II intrattenne un bel rapporto, come dimostrano i soggiorni di quest’ultimo nel Castello di Lorenzago, pertinenza della Diocesi trevigiana. La sua cura pastorale fu rivolta soprattutto alle parrocchie, parecchie delle quali furono create proprio da lui, come quella di San Pio X° a Treviso, dove iniziai il mio servizio di capo. Nella sua lunga missione pastorale ha somministrato il sacramento della Cresima a migliaia di ragazzi e ragazze, ha ordinato oltre duecento tra sacerdoti e diaconi. Sensibile ai valori dell’arte, ha istituito il Museo diocesano di Arte sacra; inoltre ha riformato il seminario, ha costruito “Casa Toniolo” come sede delle associazioni cattoliche, ha edificato la “Casa del clero” per accogliere i sacerdoti anziani, ha acquistato la casa di villeggiatura di Lorenzago. Come si capisce, è stato un presule pieno di iniziative. Monsignor Mistrorigo ha avuto un’enorme importanza nella nostra storia associativa. Infatti, il 21 ottobre 1984 emanò il “Decreto di erezione in associazione pubblica della sezione diocesana degli Scouts d’Europa”. Fu, quindi, uno dei primi vescovi a riconoscere canonicamente la nostra associazione, sia pure a livello locale, in quegli anni così difficili. Il 12 giugno 2004, il “Centro studi Don Ugo De Lucchi” volle festeggiare i 50 anni di episcopato del vescovo, invitandolo ad un incontro presso la “Casa Scout Anna e Franco Feder” a Treviso. Il vescovo esordì dicendo: “Sono contentissimo di essere qui, perché sono parente degli Scout: nonno e bisnonno!”. Dopo aver passato in rassegna alcuni dei suoi molti ricordi, Mistrorigo affermò: “Ora siamo in un periodo di magra per quanto riguarda il mondo dell’associazionismo; l’unica associazione che rimane in piedi è lo Scautismo”. Poi il vescovo ha ricordato la figura del nostro indimenticabile don Ugo De Lucchi, di cui espresse le doti, “un misto di zelo e dinamismo” e il dolore per la prematura scomparsa: “Ma dal cielo sono convinto che continui a seguire benevolo i suoi Scout”.
A conclusione dell’incontro, il vescovo ha pronunciato una vivace definizione e un fervido augurio: “Cosa sono gli Scout? Sono giovani in piedi. Questa è la vostra missione di domani: stare in piedi ed aiutare gli altri ad alzarsi. Io vorrei che voi foste all’avanguardia nella vostra diocesi. E ricordate che quando sarò di là, guarderò se gli Scout si comportano bene!”. Rimase operoso anche per i lunghi anni successivi al termine del suo mandato di vescovo titolare, dedicandosi alla stesura e pubblicazione di testi di contenuto biblico e liturgico ed aiutando nell’amministrazione del sacramento della Cresima. Negli ultimi tempi aveva perso l’uso della parola, ma il suo sguardo era ancora vivo e penetrante. È tornato alla casa del Padre sabato 14 gennaio 2012. Pochi giorni dopo, il 26 marzo, avrebbe compiuto 100 anni. Grazie, don Antonio Mistrorigo, ti porteremo con noi: ci hai sempre voluto bene e ci hai aiutato nei momenti difficili e complessi della nostra storia associativa.

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Da Azimuth 3-2013
ESTOTE PARATI
Claudio Favaretto

Il 6 maggio del 1976, alle 21,06, un terribile terremoto colpì il Friuli. L’impatto emotivo sulla nazione fu enorme, alla vista di interi paesi rasi al suolo, con un impressionante numero di morti, in continuo drammatico aumento.
Come al solito, oltre alle forze preposte, molti volontari partirono da ogni parte d’Italia. Anche numerosi Clan e Fuochi della nostra neonata Associazione partirono per raggiungere le zone terremotate.
Io, Capo Clan, ero insegnante di liceo e non potevo abbandonare il posto di lavoro nella parte conclusiva dell’anno scolastico. Perciò partimmo appena liberi dagli impegni scolastici, attorno alla metà di giugno.
Ma io ero molto perplesso. Sapevo bene che tanti volontari erano più di intralcio che di aiuto. Mi chiedevo in cosa saremmo potuti essere utili noi, quindici ragazzi, privi di strumenti adatti a rimuovere macerie e inadatti a intervenire in qualche modo su una popolazione smarrita e bisognosa di ogni cosa. Devo dire che partii di malavoglia, senza farlo trasparire ai miei Rovers. Ma l’“Estote parati” era pur sempre il nostro motto, per cui accettai la sfida.
I Clan e i Fuochi che ci avevano preceduto avevano svolto il loro servizio a Vito d’Asio, un paese che non avevo neppure mai sentito nominare prima di allora. Giungemmo nel tardo pomeriggio, dando il cambio a due Clan, uno di Treviso ed uno di Roma.
Il paese era stato completamente distrutto per cui era stata allestita una tendopoli su un prato fuori dal centro abitato. Nei pressi era stata edificata una costruzione in legno che fungeva da cucina e da mensa per gli abitanti e per coloro che lavoravano alla bonifica del sito. Erano presenti anche alcuni soldati, comandati da un tenente, con compiti logistici. Ci era stato assegnato uno spazio non lontano dalla tendopoli per piantare le nostre tendine, cosa che facemmo, allestendo anche una sorta di cucina-soggiorno riparata da teli, secondo tradizione. Poco lontano si era accampata anche una pattuglia di Scolte, con la loro capo, che svolgevano il loro servizio contemporaneamente a noi.
La sera stava scendendo, gli altri Clan se n’erano andati e io mi interrogavo sul significato della nostra presenza: mi sembrava che fossimo quasi degli intrusi in un contesto già organizzato.
Cenammo in mensa, assieme a tante persone, per poi recarci a riposare, dopo esserci messi d’accordo con il responsabile della tendopoli, un bravo e simpatico giovane, tarchiato, cordiale e deciso, che il giorno seguente noi saremmo stati disponibili alle richieste della gente, per servizi adatti alle nostre capacità.
Infatti così avvenne. Su una parete della mensa fu posta una bacheca dove gli abitanti che avevano bisogno di qualche lavoro scrivevano le loro necessità: così, a gruppi, i Rovers si dedicarono ad ogni tipo di servizio.
Aiutammo a sistemare la legna, a rastrellare il fieno, a diradare piantine di granoturco, a mettere in ordine masserizie, a raccogliere le immondizie.
Le Scolte, d’altra parte, distribuivano, a chi ne faceva richiesta, capi di vestiario giunto da ogni parte d’Italia ed anche da diversi stati europei. Ma mi restava un po’ l’amaro in bocca di sentirmi quasi di peso, perché anche noi usavamo della mensa. Così decidemmo di cucinare per conto nostro: durò poco, perché la signora che gestiva la mensa ci disse che la nostra presenza insieme agli altri era non solo gradita, ma desiderata: non erano certamente i nostri pasti a mettere in crisi la loro cucina.
Ciò mi fu di grande insegnamento. Perciò ritornammo a condividere i pasti con tutti i paesani e i lavoranti con cui, un po’ alla volta, entrammo in relazione. Gli abitanti erano con noi estremamente cordiali e grati dei piccoli servizi che facevamo: avevano perso quasi tutto, ma erano così ospitali e generosi che ci invitarono più di una volta a pranzo o a cena, a condividere quel poco che avevano.
Una cosa veramente commovente ed educativa per il clan intero. Ma il vero servizio, senza che lo cercassimo, si presentò sotto altra forma.
La sera dopo il nostro arrivo, improvvisammo un fuoco di bivacco tra di noi, per concludere la giornata con qualche canto e la recita delle preghiere. Si unirono quasi tutti i militari e qualche persona della tendopoli. La sera successiva preparammo un cerchio con delle panchine per l’eventuale pubblico che difatti si presentò in proporzione ben maggiore della sera precedente. La terza sera decisi di non svolgere il fuoco di bivacco, per non dare l’impressione che fossimo dei saltimbanchi. Ma mi pentii amaramente quando giunsero dei camion pieni di soldati provenienti non so da dove: erano venuti proprio per stare insieme attorno al fuoco e cantare in compagnia.
Dalla sera successiva la nostra giornata si concluse puntualmente con il fuoco cui parteciparono sempre più persone: così dal tenente di Vito d’Asio si passò al maggiore per finire al colonnello, giunto l’ultima sera con la moglie e un numero enorme di soldati. Naturalmente ai canti dovemmo aggiungere giochi, scherzi e ban. L’attesa era diventata così grande che alcuni soldati rinviarono la loro licenza pur di restare fino alla fine della nostra settimana di servizio.
La conclusione dell’ultimo fuoco fu veramente straordinaria: dopo le preghiere recitate compostamente da tutti, cantammo il canto dell’addio e devo dire che la commozione prese tutti. Eravamo andati per obbedienza a quell’“Estote parati” che ci contraddistingue, e ci ritrovavamo con la consapevolezza di aver svolto uno dei servizi più belli e nobili: aver fatto felici almeno per qualche ora, persone o colpite dalla tragedia o inviate a svolgere impegnativi compiti.

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Da Azimuth 2-2014
Ritratto di Don Rino Olivotto
Una persona di cui non ci si può dimenticare

Claudio Favaretto

Si è spento mercoledì 22 gennaio 2014 Mons. Rino Olivotto, 85 anni, per molti anni Assistente dei nostri Gruppi Scout di Treviso e di alcuni campi scuola associativi. Di seguito il ricordo di due Capi.
L’avevo incontrato per la prima volta per strada, mentre passeggiava con un comune amico, che me lo presentò. Era grande, massiccio, di fiero portamento, proporzionata la testa dove risaltavano i bianchi capelli rimasti nella nuca, vivacissimi gli occhi dietro le lenti di leggera montatura, grande la bocca dalle labbra carnose che si aprivano frequentemente in un cordiale sorriso. Era sicuramente una di quelle persone che non si dimenticano. Poteva avere fra i cinquanta e i sessant’anni.
Qualche tempo dopo, per una di quelle sorprese imperscrutabili ed imprevedibili della Provvidenza, divenne l’Assistente ecclesiastico del Clan di cui ero allora il capo. E da lì cominciò una lunga e feconda collaborazione con gli Scouts d’Europa Cattolici, che ebbe termine il 22 gennaio scorso, con la sua dipartita.
Ero andato a trovarlo pochi giorni prima, in seminario. Mi accolse, come di consueto, con cordialità affettuosa ed insieme ricordammo fugacemente , data la mia fretta, i begli anni condivisi nel servizio, a volte faticoso, ma sempre gioioso. Ci lasciammo con il proposito di rivederci presto. Ed invece...
Mons. Olivotto, per noi tutti don Rino, era rimasto affascinato dallo Scautismo fin dal primo momento. Il rispetto delle regole, la lealtà, il senso del servizio gratuito, l’entusiasmo dei giovani anche di fronte alle difficoltà, la condivisione della fatica e della gioia, la Spiritualità della Strada, il rispetto e l’amore per il Creato, pallido segno visibile della bellezza del Creatore: tutto ciò era consonante con la sua personalità. Aveva studiato al Collegio Capranica di Roma, lì inviato dai superiori del seminario di allora, che avevano colto l’intelligenza e le risorse umane di quel giovane prete. Ritornato, insegnò per un trentennio Teologia morale in Seminario di Treviso. Eppure la sua cultura non pesò mai nei rapporti interpersonali, specialmente con i giovani che lo sentirono subito un loro fratello maggiore, capace di capirli, di sostenerli e di incoraggiarli.
Così, se don Rino era rimasto affascinato dallo Scautismo, noi fummo affascinati da lui. Il suo spirito di servizio fu da subito esemplare, in sintonia perfetta con l’ideale proposto dallo Scautismo cattolico. Ricordo affettuosamente la sua prima esperienza di Campo Mobile, che fu anche il suo battesimo del fuoco. Essendo ormai avanti con gli anni e di corporatura poco agile, non seguì il Clan nelle impegnative tappe di montagna, ma lo raggiungeva, quando possibile, alla sera, nelle soste per il pernottamento. Quando ci si incontrava, era raggiante per il riuscito appuntamento e premuroso nell’offrirci tutti i generi di conforto che la sua macchina conteneva in abbondanza.
Quella macchina gli serviva anche da riparo, perché, avendo tolti i sedili da un lato, ne aveva ricavato un vano giusto per il sacco-letto. Era felice di condividere con noi la gioia del fuoco da cucina e la fraternità spontanea che scaturiva dai fuochi di bivacco.
Amava moltissimo celebrare la Messa all’aperto, con l’altare allestito sul luogo con i mezzi di fortuna che la natura ci offriva di volta in volta. Si compiaceva di tutto ciò che il clan faceva, a partire dal luogo scelto per il pernottamento. “Ma che bel posto!” esclamava, anche se non sempre ciò corrispondeva a verità. Il suo ottimismo trascinava i giovani e i capi, che sentivano in lui una solida presenza e un virile aiuto.
Pur dotato di grande carisma, si adattò sempre umilmente alla personalità dei capi con cui svolse il suo servizio, profondamente convinto della laicità dell’Associazione. Dopo aver ascoltato la relazione di un’attività ben riuscita, usciva con un’espressione rimasta proverbiale: “Godo!” ad esprimere una profonda partecipazione all’evento.
Di squisita attenzione umana ed educativa, costruì tutte le relazioni interpersonali con profonda delicatezza, anche nei momenti più difficili e con le persone di carattere spigoloso.
Caro don Rino, tu hai saputo infondere in tutti coloro che hanno avuto la gioia di conoscerti, il senso promettente della vita, riuscendo a far vedere, al di là delle difficoltà, un orizzonte positivo. Caro don Rino, tu hai saputo con noi godere delle piccole grandi cose che il Creato ci offre e ci hai fatto intuire che il cielo sereno altro non è che il lembo azzurro del manto di Dio.
Buona strada, Gabbiano bianco!

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Da Azimuth 2-2017
Europa e Scouts d’Europa
Claudio Favaretto

Il 25 marzo scorso si sono svolte a Roma varie cerimonie per ricordare con solennità la ricorrenza del sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma. Devono essere stati molto importanti questi trattati se il loro ricordo ha mobilitato capi di stato e di governo di tutta Europa. Infatti, nel 1957 nacque la Comunità Economica Europea (CEE) con lo scopo di eliminare ogni barriera doganale all’interno dei sei stati aderenti ( Belgio, Olanda, Lussemburgo, Francia, Germania e Italia). Ma fu deciso anche di dar vita all’Euratom, un organismo che doveva mettere insieme esperienze scientifiche per poter utilizzare l’energia nucleare a scopi pacifici. Ma la storia dell’Europa unita nasce una decina di anni prima, nel 1947. Dopo la terribile tragedia della seconda guerra mondiale, ci si rese conto che non si poteva continuare a ritenere di risolvere i problemi delle nazioni con la forza come avevano drammaticamente dimostrato le due guerre mondiali. Tali scontri avevano provocato milioni di morti, intere generazioni di giovani uomini uccisi nei campi di battaglia, milioni di bambini orfani, giovani madri vedove, città distrutte, industrie rase al suolo, campagne abbandonate, povertà e miseria. Ma per fortuna dopo il 1945 l’anelito di pace finalmente raggiunta spinse più a cercare la collaborazione degli altri stati che non la sfida. Alcuni grandi statisti di quel tempo facilitarono questo processo positivo: Adenauer in Germania, (quella occidentale perché l’orientale era ancora sotto il controllo sovietico), Schuman in Francia e De Gasperi in Italia furono convinti assertori dell’unità e della pace tra i popoli europei. Tutti e tre profondamente cattolici, diedero alla loro azione politica uno slancio ideale che forse oggi si è un po’ perduto. Ecco in sintesi le tappe dell’Unione Europea. I primi paesi che pensarono di abolire le barriere doganali per far circolare liberamente merci e persone furono Belgio, Olanda e Lussemburgo i cui governi in esilio a Londra firmarono nel 1944 un protocollo d’intesa che originò il Benelux. Francia e Regno Unito estesero al Benelux l’alleanza militare che legava i due paesi fin dal 1947. Nel 1948 nacque l’OECE (Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica) e l’anno successivo il Consiglio d’Europa, organismo che univa gli stati membri con lo scopo di difendere la democrazia e far rispettare i diritti umani. Ma il patto più importante di questi primi anni fu quello firmato a Parigi nel 1951che istituì la CECA (Comunità Europea del Carbone e del’Acciaio), un istituto sovranazionale che aveva il compito di razionalizzare le risorse in ambito carbosiderurgico. Se si pensa che il carbone ed il ferro furono sempre considerate le materie prime indispensabili per creare un’industria pesante, cioè treni, navi, motori, ma anche carri armati, cannoni, si capisce l’importanza di condividere le risorse a fini pacifici. Bisogna ricordare che le regioni di confine come l’Alsazia e la Lorena da parte francese e la Saar e la Rhur da quella tedesca sono propriamente minerarie e quindi furono sempre contese.
Nel 1957, come si è già visto nacquero la CEE e l’Euratom. Dieci anni più tardi i tre organismi sovranazionali esistenti vennero unificati e coordinati da una Commissione Europea, sostenuta due anni dopo dal Parlamento Europeo. Nello stesso anno nacque lo SME, Sistema Monetario Europeo con il compito di evitare contrasti tra le divise dei vari stati, in preparazione di una moneta unica.
L’entusiasmo per la casa comune europea aumenta progressivamente così da spingere altri stati a diventarne membri. Infatti tra il 1973 e il 1986 aderirono alla CEE altri sei paesi: Regno Unito, Danimarca, Irlanda, Grecia, Portogallo e Spagna. Dopo l’unificazione della Germania nel 1990 venne stipulato il trattato di Maastricht che indicava i termini della vita comune dei vari stati membri a proposito di economia, di difesa comune, di diplomazia, di cittadinanza. Nacque finalmente l’UE, l’Unione Europea, alla quale aderirono Austria, Finlandia e Svezia. E nel 1999 si realizzò un altro sogno che sembrava impossibile: gli stati membri adottarono una moneta comune, l’euro ( salvo Danimarca, Svezia e Regno Unito). Da quell’anno si poté viaggiare con la sola carta d’identità e senza il pensiero di cambiare valuta in buona parte dei paesi europei. Nel 2000 aderirono all’UE altri dodici stati: Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia,
Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Slovenia, Romania, Bulgaria, Malta e Cipro. Sembrava che il sogno alimentato per molti anni dai più sensibili statisti fosse finalmente diventato realtà.
Ma i problemi cominciarono a scuotere la costruzione europea, soprattutto sotto la spinta di due imprevisti fattori: la disordinata e massiccia l’immigrazione dai paesi del terzo mondo e la crisi economica. Rispuntarono tensioni all’interno dei vari stati in cui cominciarono ad affermarsi partiti politici antieuropeisti che attribuivano e attribuiscono all’Europa la responsabilità delle difficoltà economiche e sociali oltre all’insicurezza personale. Si è giunti pertanto alla drammatica uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, in seguito ai risultati del referendum del 23 giugno dello scorso anno, la famosa Brexit. Ci vorranno due anni di trattative per giungere alla separazione definitiva, ma la scelta inglese ha scosso l’Europa. Altri movimenti antieuropei hanno preso coraggio da questo fatto soprattutto in Francia, ma anche la nostra Italia non ne è immune.
Ma noi Scouts d’Europa siamo profondamente europeisti, a partire già dal nome! Noi abbiamo sempre creduto all’abbattimento delle frontiere e alla libera circolazione
delle idee e delle persone. Noi pensiamo che la fraternità internazionale sia il più valido antidoto all’insorgere di tensioni, rivalità e perfino odi tra i popoli. Per questo facciamo parte di una UIGSE- FSE che significa Unione Internazionale delle Guide e Scouts d’Europa – Federazione dello Scoutismo Europeo a cui appartengono ben 17 associazioni ufficiali oltre a cinque in attesa di riconoscimento. Per questo partecipiamo di slancio agli incontri internazionali: dalle Giornate Mondiali della Gioventù agli Eurojamboree e agli Euromoot. Ma sono diventati frequenti anche incontri organizzati a livello locale tra unità di nazioni diverse per esempio per i campi estivi di scout o di guide ma anche di rover o scolte.
Forse non tutti i politici sanno quello che noi scout sappiamo. La bandiera europea che sventola anche sui pennoni dei nostri campi ha un significato profondamente religioso: l’azzurro ricorda il manto della Vergine e le 12 stelle si rifanno alla citazione dell’Apocalisse laddove si parla di una ‘Donna vestita di sole con una corona di 12 stelle’, sempre a proposito della Madonna. E a Lei chiediamo di far sì che l’Europa riprenda il suo cammino di unità, di giustizia e di pace.

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Intervento di Claudio al fuoco di bivacco del centenario
31 luglio 2007 in Casa Scout Anna e Franco Feder

RICORDO DI CHECCO

 

Mi è stato chiesto di fare un breve intervento attorno a questo fuoco di bivacco, di raccontare qualche aneddoto tratto dalla vita scout.

Ma questa sera penso che sia importante dire una testimonianza di Checco. Per uno strano disegno, il suo funerale coincide con il centenario dello scoutismo che lui tanto capì, amò e fece amare. Di fronte ad una personalità così grande e complessa ognuno di noi può aver colto sfumature diverse e molto personali. Perché le personalità ricche si possono leggere da molteplici angolazioni e mai completamente.

Io ero un ragazzino quando lo conobbi, alla mia prima uscita di riparto, e ne rimasi affascinato. Cercavo ogni scusa per andarlo a trovare a casa sua, in vicolo Monte Piana, perché ero assetato di cultura. E lui era molto colto.

Voi sapete che ogni casa possiede un proprio odore: la sua sapeva di acqua ragia, di colori ad olio, di mobili antichi.

Il mio povero appartamento popolare a confronto era un niente.

Ricordo che alle pareti c'erano dei suoi quadri, ma anche alcuni del nonno paterno, pittore di valore anch'egli.

E poi ceramiche dipinte, e alcune delle sue prime prove di artista, tra cui un quadro con un glicine, se non ricordo male, che egli aveva dipinto sul fondo di una scatola da scarpe quando aveva sedici anni. E per me era già straordinario.

Ma la stanza che mi piaceva di più era la «stanzetta Pipolini», dove c'era un po' di tutto: scene di teatro dei burattini, tele, drappi, ricordi della guerra che egli aveva vissuto sempre in quel luogo. In quella stanzetta posai come Mowgli per dei cartelloni che servivano per la mostra scout svoltasi nell'estate del 1954 a Palazzo dei Trecento.fuoco di bivacco 31-07-07_12.jpg

Sempre a proposito della guerra, ricordo che mi raccontò che quando c'erano gli allarmi aerei, la famigliola, Checco, Gino e la mamma Dina, si rifugiavano nella cantina, ospitando anche dei vicini. Ma una notte fu bombardata la vicina caserma De Dominicis e la paura fu grande. Mentre tutti pregavano, egli confessò ad alta voce alla mamma di essere stato lui a fare non so quale marachella. Allora la signora Dina, donna di fiero carattere, incurante delle bombe, gliele suonò di santa ragione, nonostante l'intercessione dei presenti, per i quali la mancanza commessa era nulla di fronte al pericolo.

I nostri legami s’infittirono quando egli divenne capo riparto. Ed allora io, come tanti dei presenti, mi accorsi di quanta generosità, di quanto spirito di servizio era capace. Spesso si licenzia dal lavoro per venire al campo.

Erano gli anni meravigliosi del binomio Checco -Don Ugo.

Bisogna ammettere che tutti noi che li abbiamo vissuti siamo stati fortunati a crescere accompagnati da persone così straordinarie e significative. Ciascuno di noi si sentiva importante, grazie a loro, per la vita del riparto. Poi, con il passare degli anni, le distanze dovute all'età si ridussero sempre più: tra quindici e venticinque anni le distanze sono enormi, tra ventidue e trentadue, molto meno.

Così nell'agosto del 1963 passammo insieme alcuni giorni in una casera in Alpago: io studiavo e lui dipingeva.

C'eravamo messi d'accordo con un vecchio contadino che aveva la stalla poco lontano, che ci portasse il latte la mattina. Ma il buon uomo arrivava alle cinque e mezzo, bussando fragorosamente alla nostra porta, gridando: «Giovinetti, il latte!» E Checco rispondeva immancabilmente «se’l ‘ndasse a farse...». Perché bisognava riconoscere che Checco non fu mai uno sportivo e per lui l'alba era una cosa misteriosa e tormentosa.

Malgrado questo si sobbarcò imprese epiche come i due campi in Francia, specialmente quello del 1972, quasi prova della futura nuova associazione, che sarebbe nata nel 1976.

La storia più recente è conosciuta da tanti e ciascuno ne conserva gelosamente nel cuore parole, gesti, risa e anche profondi dolori.

La perdita dell'Anna Maria lo segnò profondamente e in modo definitivo.

Un giorno mi confidò: «Vedi, quando vedo una cosa bella o faccio un bel quadro non so più a chi mostrarli».

Malgrado fosse circondato dall'affetto di tanti amici, alcuni dei quali lo hanno assistito fedelmente ed amorevolmente fino all'ultimo e ai quali va tutta la nostra gratitudine si sentiva solo nell'animo.

E poi l'ictus che lo colpì dodici anni fa lo rese ancora più solo.

Tutti noi abbiamo patito nel vedere una persona così brillante e creativa, costretta al balbettio e all'inerzia. Ma le espressioni del volto e degli occhi tradivano la passata ricchezza interiore.

Per finire voglio solo aggiungere che sempre sono rimasto impressionato dalla sua personalità e dalla scelta profonda di servizio scout e più schiettamente cristiano.

Un uomo così straordinario poteva pensare solo a se stesso, alla sua carriera che si presentava strepitosa se a vent'anni aveva già vinto il premio Internazionale «Cittadella» per l'incisione. Eppure aveva un animo così generoso che in gran parte la trascurò, senza mai perderla, certamente, per l'ideale scout.

E poi la dimensione creativa: io restavo incantato a vedere uscire dalle sue mani un paesaggio meraviglioso, o un volto, o una caricatura.

Tra l'altro scriveva in modo affascinante, prose e poesie: queste abbiamo potuto goderle un po' tutti. Grazie a Gianni che ce ne ha fatto conoscere due abbastanza recenti.

E come dimenticare i suoi canti, sempre pieni di slancio e di fiducia nell'avvenire, con quella Fede nella Provvidenza che egli non ha mai abbandonato.

Possiamo dire veramente di essere stati fortunati ad aver avuto un genio per amico e maestro.

Che il Signore lo ricompensi di tutto il bene che ha fatto!

CASTORO DEL FIUME - Claudio.


Intervento scritto di Claudio su Luciano Furlanetto in occasionedella mostra degli acquerelli  del 2014 al battistero del Duomo di Treviso

Ricordo di Luciano Furlanetto per tutti gli amici Ciano

Dividerò questo semplice ricordo in quattro parti:- l'amicizia- lo scoutismo- gli affetti familiari- l'arte.
L'amicizia
Ci siamo conosciuti sui banchi di scuola, in seconda media. Lui era già formato mentre io ero ancora piccolino, per cui i vecchi banchi di legno di un tempo per Ciano erano troppo corti e per me troppo lunghi. Diventammo subito amici e compagni di banco, con le caratteristiche di cui sopra.
Lui era già bravo in disegno, materia in cui ero - e sono rimasto-, una schiappa. Ma riuscivo bene in latino, per cui ci si aiutava nei compiti domestici e questo rinsaldava ancor più il nostro sodalizio che si ampliava anche con i discorsi e le reciproche confidenze che costituiscono un sostrato importante nell'amicizia tra adolescenti.
Dopo la terza media le nostre strade scolastiche si divisero: Ciano frequentò il liceo artistico, allora presente solo a Venezia, mentre io mi avviai a malincuore verso un istituto tecnico industriale a Mestre.
Ma la nostra amicizia non si interruppe, anzi si rafforzò per un legame che da allora ci legò per sempre: lo scoutismo.
Lo scoutismo
In seconda media io divenni caposquadriglia e naturalmente cercavo nuovi adepti. Cominciai a corteggiare Ciano che a quel tempo faceva parte di una squadretta di basket della parrocchia di Sant'Agnese. La mia perseveranza fu premiata e già nell'estate di quell'anno, il 1955, Ciano partecipò al campo estivo a Domegge di Cadore, con la mia squadriglia, i Castori.1955-rip-smdrovere-campo-dopmegge-sq-castori.jpgSalvo qualche interruzione dovuta ai casi della vita e agli impegni familiari, giocammo il grande gioco scout fino al suo ritorno alla casa del Padre. Tra i segni di pista scout, ce n'è uno particolare: un cerchio con un punto al centro, che significa "sono tornato a casa". Questo stesso segno noi lo usiamo per i fratelli che cihanno lasciato.
Insieme abbiamo percorso l'Italia e l'Europa per innumerevoli incontri nazionali e internazionali, per campi scuola, per uscite, per riunioni. La nostra collaborazione è stata costante e fedele, tanto da diventare modello, anche per gli altri capi, di corretti rapporti, cosa non sempre facile quando si lavora insieme.
La sua disponibilità e la sua lealtà erano veramente profonde. La sua sensibilità lo portava a privilegiare i contatti umani e nei campi scuola curava particolarmente la conoscenza e l'amore per la natura, così come la profondità e la bellezza della liturgia.
Eravamo così affiatati che quando c'era un incontro al chiuso e non in tenda, sceglievamo di dormire insieme per non disturbare gli altri, visto che il nostro russare era simile al lavoro di una segheria ed era ben noto ai vicini. Ma prima di addormentarci ci si augura sportivamente "Vinca il migliore!".
Gli affetti familiari
E' questo un ambito così privato ed esclusivo nel quale non mi permetto certo di entrare.
Dico solo che, da quanto ho potuto notare, Ciano è stato un marito esemplare per attenzione e disponibilità, ed un padre preoccupato per la crescita dei figli, verso i quali ha sempre manifestato delicata ma continua attenzione educativa, unita ad un profondo e rispettoso affetto.
L'ultimo piano affettivo è stato quello dei nipoti, nel cui confronto era tenerissimo e pronto a registrare nel suo profondo ogni gesto di affettuosa gratitudine.
L'arte
Conservo ancora il quaderno di caccia del 1955, nel quale Ciano mi disegnò, ad acquerello, alcuni fiori che la nostra squadriglia aveva raccolto per una "caccia natura", termine scout per definire una ricerca sulla natura del luogo.
Questo per dire quanto sia stata precoce la chiamata all'arte pittorica di Ciano. La sua è stata una vera vocazione che fortunatamente per lui e per noi egli ha seguito per tutta al vita. Per lui perché non c'è niente di più appagante che seguire la propria vocazione, per noi perché abbiamo potuto godere per molti anni della sua creatività.
Ciano ha utilizzato diverse tecniche nel corso degli anni, seguendo l'impulso del momento o la richiesta della committenza. Così ha usato l'affresco nella chiesa di San Floriano, la terracotta nella chiesa della sua parrocchia, Sacro Cuore, la ceramica sempre a San Floriano. Ma penso di poter dire che la tecnica prediletta sia stata l'acquerello, probabilmente per la velocità di esecuzione unita alla pressoché infinita scelta dei colori. Su un foglio di grana grossa, egli tracciava con la matita veloci segni di contorno, poi intingeva il pennello nell'acqua e sceglieva e creava le tonalità che aveva in mente. Era stupefacente osservare con quanta sicurezza la mano seguiva il pensiero creativo. Così ha disegnato anche durante i lunghi giorni di degenza , quasi per lasciarci ancora un'ultima testimonianza della sua bravura e della sua profonda fede.
E questa mostra lo testimonia.

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da Azimuth 5 2013
Altro ricordo scritto di Claudio su Ciano

Ci conoscemmo sui banchi di scuola: era la 2a media, sezione F. La scuola aveva sede in centro città, in un palazzotto del 1600, poco adatto alla vita degli studenti e al di fuori di ogni attuale regola antincendio, antisismica, senza vie di fuga, salvo quella effettivamente usata delle scale al termine delle lezioni: era proprio una via di fuga.
I banchi erano del tipo “compact”, in legno massiccio, con i sedili facenti blocco unico con il piano di studio.
Per questo motivo, a me che ero piccolino, la distanza tra sedile e piano risultava eccessiva, ma per Ciano, già sviluppato fisicamente, era inadeguata per difetto, per cui le sue ginocchia sporgevano dal piano di lettura.
Ciano era più alto di me, ma anche più grande, avendo ripetuto le prime due classi. Egli non amava le materie teoriche, specie il latino, ma aveva già una chiara predisposizione per il disegno. Infatti, terminate le medie, frequentò con successo il Liceo artistico.
Nacque così tra di noi un sodalizio negli studi, per cui ci si aiutava a vicenda, maturando un po’ alla volta un’amicizia profonda che, salvo qualche periodo dovuto alle necessità che la vita talvolta impone con durezza, è durata fino all’altro giorno.
Campo di sq. a Croce d'Aune, estate 1957Ciano aveva esercitato subito su di me, come capita ai ragazzini, un’ammirazione per la sua statura e, in qualche modo, per la sua esperienza di vita: due anni sono molti a quell’età, per cui io lo consideravo come un fratello maggiore. Ma c’era un grosso cuneo nella nostra amicizia: egli faceva parte di una squadretta parrocchiale di pallacanestro, mentre io ero da pochi mesi capo squadriglia. Mi pareva che, se io fossi stato capace di catturarlo, non ci sarebbe stato grande gioco o relazione di hike che i Castori non avrebbero vinto. La mia tenacia vinse e Ciano entrò nello Scautismo, che da allora divenne il suo mondo di riferimento educativo.
Vorrei ricordare alcuni episodi della nostra comune vita scout, altrimenti mi sembrerebbe che il ricordo si riduca ad una elencazione di qualità. Al campo del 1958, svoltosi a qualche chilometro da Taibon agordino, lui era già aiuto capo e utilizzava qualsiasi scusa per andare in paese con la Lambretta dell’assistente, anche più volte al giorno, per portare la posta, diceva lui. L’allora capo campo, l’indimenticabile Checco Piazza, compose per Ciano la seguente canzoncina: “Il postino della Val Bissera, va in paese da mattina a sera, dove va, chi lo sa, per un bollo, per un bollo va in città!”.
In tutti noi nacque il sospetto che la “tabacchina” dove egli acquistava i bolli, fosse una bella ragazza.
Per mancanza di spazio ricorderò solo un’altra caratteristica che rinsaldò ulteriormente la nostra amicizia. Noi costituimmo la più formidabile coppia di russatori che l’associazione abbia mai avuto! Così, un po’ per non disturbare gli altri, un po’ perché gli altri non ci sopportavano più, alle riunioni associative che si svolgevano al chiuso, come nel famoso collegio “Cerini”, sceglievamo di dormire nella stessa camera. Ma prima di infilarci sotto le coperte ci dicevamo: “Vinca il migliore!” e dopo poco cominciava la battaglia.
Appartiene alla storia associativa anche la presunta presenza di orsi ai Campi scuola di Genga, mentre si scoprì che si trattava “semplicemente” di noi due concertisti.
Ciano è stato un capo straordinario che diede il meglio di sé durante la preparazione e
lo svolgimento dell’EJ di Viterbo: sua l’impostazione pedagogica che vide sempre al centro l’utilizzo di quel formidabile strumento educativo che è la squadriglia. Fu tra l’altro uno scrupoloso Capo Campo in svariati campi scuola, dove riuscì a fondere, in un solo omogeneo messaggio la tecnica, il metodo, la liturgia e la spiritualità.
La nostra assidua frequentazione per le numerosissime riunioni romane, ci portò a salutarci, anche quando ci si trovava a Treviso, alla “romana”: “A Cià!” “A Clà!”.
Attento ed affettuoso in famiglia, nonno tenerissimo, Ciano godette solo ultimamente l’apprezzamento del grande pubblico per le qualità artistiche. Ricordo una Via Crucis dove si fusero la poesia in acrostici di Luigi Pianca, le musiche inedite del maestro Antonello e gli acquerelli di Ciano che, proiettati sul grande schermo come accompagnamento visivo del racconto evangelico, suscitarono intense emozioni nel vasto pubblico presente.
Nello scorso mese di dicembre fu allestita nel Battistero del Duomo di Treviso una mostra intitolata “Vedere il Vangelo di Luca”, composta da 290 splendidi acquerelli di Ciano, così coinvolgenti che il presentatore si rammaricò che il vivere appartato e schivo di Ciano avesse privato la cittadinanza della sua creatività pittorica. A Cià, uomo buono e leale, amico sincero e fedele, che la tua sensibilità artistica ed educativa gioiscano negli spazi infiniti, sotto lo sguardo amorevole di Dio!

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Da DISEGNO SCOUT Forma, Stile e Metodo
Il valore educativo del disegno nello scautismo
Claudio Favaretto



O Signore, nostro Dio,…
se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai fissate,
che cosa è l’uomo perché te ne ricordi,
il figlio dell’uomo perché te ne curi?

Eppure l’hai fatto poco meno che gli angeli,
di gloria e di onore lo hai coronato..

[Salmo 8]

Solo l'uomo, infatti, è in grado di apprezzare l'opera di Dio, solo l'uomo è capace di esprimere ed esternare i suoi sentimenti perché sa usare delle forme di comunicazione che nessun altro essere vivente è in grado di utilizzare: la parola, la musica, il canto, il disegno...
È talmente grande il bisogno di esprimersi nell'uomo che lo si nota fin dai primi giorni di vita: il balbettio, così come i gridolini, lo stesso pianto sono mezzi di comunicazione.
Lentamente i bambini si impadroniscono del linguaggio orale, ma sentono un impellente bisogno di comunicare anche in altro modo per cui cominciano a fare degli scarabocchi con qualsiasi cosa lasci un segno: matita, pennarelli, gesso, tizzoni spenti, e su qualsiasi superficie: tavoli, pavimenti, piastrelle, muri, con grande disappunto dei genitori che non sempre apprezzano questo aspetto artistico dei propri figli! Ma a ben osservare ci si accorge che il bambino cerca di rappresentare quella finestrella di mondo che via via conosce: un fiore, un animale, la bicicletta, il sole, l'arcobaleno. E se tu non capisci i suoi disegni, lui te li spiega. Guai a ridicolizzare questi tentativi, perché significherebbe interrompere il suo sistema di comunicazione.
Oltre al mondo esteriore, il bambino di tre-quattro anni sente il bisogno di esprimere i suoi sentimenti, di comunicare gli affetti. Ecco, quello che si allega è un disegno importantissimo: la piccola Gaia, di quattro anni appena compiuti, ha rappresentato la sua mamma e il suo papà. È una bambina felice, che vive il suo rapporto familiare con grande serenità. Non ci sono grandi differenze tra le due figurine, anche la loro altezza è uguale: sono entrambi preziosi per lei.
Tra poco si sforzerà di disegnare anche i due fratelli più grandi e poi tutto il suo mondo affettivo: i nonni, le maestre, le amichette... Non sono importanti a quest'età le proporzioni né è importante la somiglianza: l'importante è trovare lo strumento utile a manifestare l'amore.
Questa necessità di disegnare viene coltivata anche a scuola, alla materna, alle elementari e alle medie. Poi si affievolisce fin quasi a spegnersi, salvo in quei ragazzi che scelgono una scuola artistica o professionale. Negli altri ordini di studio si predilige l'educazione linguistica, per cui per moltissimi adulti la capacità pittorica è ferma al tempo della terza media!
Se gli insegnanti che la nostra Gaia incontrerà saranno bravi, utilizzeranno il disegno non solo per far crescere le sue capacità artistiche, ma anche come strumento educativo formidabile. Lo scautismo è ben consapevole di ciò e vi pone la massima attenzione fin dall'età Lupetto e Coccinella. A quest'età il disegno è strumento prezioso per lo sviluppo delle capacità grafiche e dell'abilità manuale, per l'auto-espressione, per l'acquisizione di conoscenze, per l'educazione estetica, ma soprattutto per la formazione del carattere.
Spesso i bambini sono disordinati, frettolosi, indisciplinati, incostanti. Il disegno li aiuta alla precisione, li stimola a portare a termine il lavoro iniziato, li sprona a curare il risultato, li spinge a superare il divario tra l'idea e la realizzazione.
L'età successiva quella degli Esploratori e delle Guide, ha come fulcro educativo centrale la Squadriglia. E la vita di Squadriglia stimola la creatività!
Come fissare il fascino dell'avventura vissuta, non letta né ascoltata, ma partecipata? Come raccontare ai propri compagni di classe le imprese realizzate?
Certo con le foto, ma soprattutto con il disegno: quello di un paesaggio, della torretta di segnalazione costruita con le proprie mani, di un particolare di un incastro difficile. La memoria storica diventa il Libro di marcia di Squadriglia, il particolare volume all'interno del quale vengono raccolte, nel tempo, notizie e cronache su attività, uscite e campi; generalmente confezionato dagli stessi ragazzi con una rilegatura in stile scout, è arricchito da disegni e fotografie.
E poi ci sono le prove di classe, le specialità, il Viaggio di Prima classe.
Quante occasioni per utilizzare la propria capacità artistica e fissarla nel Quaderno di Caccia personale! È questo un oggetto di grandissima importanza perché spinge l'adolescente a migliorarsi continuamente.
Per arrivare a questo punto, infatti, bisogna vincere alcune caratteristiche tipiche dell'età come l'insicurezza, il timore del giudizio altrui, la tentazione del non-finito, la frettolosità che porta alla trascuratezza del proprio compito.
Il bravo Capo Riparto conosce questi aspetti del carattere degli adolescenti e cerca di correggerli assegnando ad ogni squadriglia delle missioni in cui, grazie alla collaborazione dei capisquadriglia, ogni ragazzo sarà coinvolto per raggiungere la méta comune.
Il disegno diventa ancora prezioso strumento educativo nel superamento delle prove di classe e nella conquista delle specialità.
Nella prova di conoscenza della natura, ad esempio, la riproduzione delle nervature di una foglia, lo schizzo di un nido, la rappresentazione di un seme portato dal vento, o di un fiore svelano all'adolescente la bellezza del creato che ad un esame superficiale inevitabilmente sfuggirebbe. E la bellezza suscita stupore nella giovane anima che viene così sollecitata a riflettere su Colui che è stato e continua ad essere l'Autore di una bellezza preparata proprio per ciascuno di noi, purché siamo capaci di vederla!
In età Rover e Scolta il disegno diventa una delle chiavi più importanti per conoscere quel mondo in cui il giovane si inserirà con tutto il suo bagaglio di conoscenze, con la sua ricchezza di idealità, con la sua forza morale. Così l'Inchiesta di Clan e di Fuoco, la particolare attività di indagine e conoscenza socio-culturale finalizzata ad approfondire un determinato argomento, arricchita dai suoi schizzi, avrà il sapore di una scoperta viva: la scoperta di un giovane uomo e di una giovane donna capaci di interpretare e capire un paesaggio geografico, ma anche antropico. Così certamente si stupiranno di fronte all'insolito dipanarsi delle strade di un villaggio di montagna, agli edifici civili e rustici, agli affreschi di una cappella solitaria in aperta campagna o elevata sopra un colle dominante il paese, quasi a proteggerlo. Cercheranno di capire le usanze di quel villaggio, la sua cultura, le sue tradizioni. E le difficoltà del vivere e gli strumenti per renderle sopportabili, come, ad esempio, la condivisione del lavoro, del sostegno collettivo di fronte alle disgrazie inevitabili. Ma anche la gioiosa partecipazione alle feste patronali, con i canti, le danze, la cucina tradizionale.
Un giorno, in caso di necessità, anche i nostri Scout, Rover e Scolte, saranno in grado di portare, il loro aiuto a quella gente che hanno conosciuto nel loro andare, curiosi e intelligenti pellegrini lungo la Strada.
In definitiva al momento della Partenza avranno interiorizzato la fantasia creatrice del Lupetto e della Coccinella, lo slancio avventuroso dello Scout e della Guida e l'esperienza di servizio del Rover e della Scolta. E saranno in grado di distinguere tra la faccia, cioè l'esteriorità, e il volto, cioè l'interiorità, di chi incontrano nel cammino della loro vita.
Oggi il primo termine ha quasi totalmente sostituito il secondo. Ma per il teologo e vescovo S. Isidoro di Siviglia, è il volto che esprime lo svolgersi dei tempo con le fatiche e le gioie che la vita riserva a ciascuno di noi.

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