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pubblichiamo alcuni degli scritti
inerenti lo scautismo che Claudio ha prodotto nel corso degli anni nelle
riviste associative e non solo
Dal libro "100 anni di
scautismo cattolico a treviso"
capitolo delle testimonianze riportiamo
il testo scritto da Claudio
RIANDANDO CON LA MEMORIA
Devo scrivere un po’ di me per far capire la
drammaticità degli avvenimenti intercorsi nei primi anni ‘70 in ambito
scautistico. Sono testimonianze storico-personali.
Ho pronunciato la Promessa scout il 4 gennaio 1954 nelle mani
dell’allora capo riparto Gino Piazza. La sera precedente avevo
partecipato alla Veglia d’armi nella chiesa di santa Maria del Rovere,
veglia guidata dall’indi menticabile don Ugo de Lucchi.
l mio sentiero scout fu sereno e proficuo. Divenni csq. il 6 febbraio
1955, fondando la sq. Castoro. L’anno successivo guidai i Castori in un
campo di sq. in quanto non poté essere svolto quello di riparto dal
momento che Checco, succeduto al fratello, fu impegnato con esami di
diploma. Durante la missione per conquistare la specialità di ciclista,
assieme al mio compagno di viaggio individuai nella valle di san Lucano,
nei pressi di Taibon agordino, un posto da campo che sarà utilizzato nei
due anni seguenti, 1957 e ‘58.
Passai in clan in ottobre del ‘58, clan che allora era cittadino perché
riuniva tutti i rover dei relativamente pochi riparti di allora.
Purtroppo, il 23 aprile del 1959 don Ugo morì, lasciandoci veramente
smarriti. Ma a settembre arrivò don Giovanni Bordin che, con tutt’altro
stile, lo sostituì.
Nel 1961 il Gruppo TV 1°, che era nato nel 1955 per riunire i vari
riparti che avevano vissuto una vita propria e scollegata, si sdoppiava
e nasceva il nostro TV 2° con pochissime unità (santa Maria del rovere,
santa Bona) ma con grandissimo entusiasmo che produsse, in breve tempo,
un’espansione ragguardevole.
Agli inizi di novembre divenni responsabile della sq. libera di san Pio
X, che diventerà Riparto nell’autunno successivo.
Nel 1962 partecipai, assieme al compianto Ciano Furlanetto, al campo
scuola di 2° tempo a Colico, sul lago di Como. Il capo campo era
nient’altro che quel Salvatore Salvatori che aveva guidato, assieme ad
altri capi storici come Osvaldo Monass, Gino Armeni, Fausto Catani, la
rinascita dell’ASCI nel 1944.
Dopo lo svolgimento delle tesine, nel 1964 ottenni il brevetto Gilwell
proprio da Gino Armeni, allora commissario alla Branca E. Ero molto
fiero perché il brevetto segnava la mèta della mia formazione scout e
sanciva la mia totale adesione agli ideali che avevo respirato fin da
ragazzino.
Ne elenco in disordine solo alcuni:
- la meraviglia della vita all’aperto che ti fa sentire attivo, utile,
forte e libero da certe imposture sociali e che ti fa conoscere da
vicino il Creato di cui tu stesso fai parte.
- la tecnica scout che ti sostiene nelle avventure, ma anche nei momenti
di pericolo, che ti rende utile al prossimo.
- l’uniforme che ti identifica e che ti richiede talvolta forza d’animo
e sempre coerenza.
- il civismo che non è solo corretto comportamento nei confronti degli
altri e rispetto per ciò che è pubblico, ma anche senso di appartenenza
ad una nazione, ad un popolo, ad una storia, ad una cultura, ad un modo
di sentire e valutare.
- lo stile che vuol dire comportamento aperto senza eccedere e riservato
senza infingimenti e ipocrisie.
- la comunità gioiosa ed equilibrata.
- l’aiuto fraterno sincero e disinteressato.
- lo spirito di servizio accettato liberamente fin dalla pronuncia della
promessa e scelto in età adulta con profonda adesione agli ideali
evangelici.
- la spiritualità vissuta con la mente, con lo spirito ed anche con il
corpo perché tutto è dono di Dio: l’intelligenza, la sensibilità, il
fisico.
- l’osservanza della Legge e della promessa.
- la cavalleria e la cortesia nei confronti delle ragazze.
- l’autonomia della propria identità maschile.
- l’ammirazione e l’affetto per B.P. uomo straordinario come soldato
(cfr le sue innumerevoli avventure) e geniale come educatore.
Nel 1968 scoppiò in Francia prima, in Germania poi, dopo la cosiddetta
contestazione giovanile, passata alla storia anche come il “68”.
Dapprima confuso poi più articolato, il movimento ebbe anche momenti di
forte violenza, con occupazioni di università, scioperi di studenti ed
operai, scontri con la polizia, contestando tutto e tutti. In
particolare si criticò profondamente tutto ciò che poteva limitare la
libertà individuale, diventata una sorta di Assoluto a cui tutto doveva
essere sottomesso, a partire da ogni forma di autorità. Nulla doveva più
essere vietato né in campo morale né civile. Famosa l’espressione
“vietato vietare”. Il primo ad essere colpito fu il concetto di
autorità. L’onda d’urto colpì dapprima l’università, poi la famiglia, la
chiesa, infine tutte le forme di gerarchia, comprese quelle delle
associazioni giovanili, compreso lo scautismo.
Fu un movimento così profondo al punto che stiamo ancora subendo le sue
aberrazioni, come l’odierna crisi della famiglia drammaticamente
insegna. In Italia si può dire che la contestazione nasca con
l’occupazione della facoltà di Sociologia di Trento per poi espandersi
alla Cattolica di Milano e un po’ alla volta anche alla scuola
superiore.
Per quanto riguarda lo scautismo, la crisi si insinuò un po’ alla volta.
E un po’ alla volta dovemmo subire, io e i capi di allora, un’infinita
serie di enormi falsità sia sotto il profilo psicologico che
metodologico. Sembra impossibile che ci sia stato qualcuno che in buona
fede credesse a tali bugie! Eppure ce ne furono tanti, alcuni dei quali
per ignoranza o per desiderio di mettersi in mostra, o per ambizione
personale.
Tutto quel mio mondo di ideali concreti ed attuati fu scosso. La prima
azione fu la conduzione femminile dei branchi. Fu detto che una donna
sarebbe stata più adatta a guidare un gruppo di bambini! E la figura di
Akela con tutto ciò che ne consegue? Il fatto vero era che parecchi
rover romani non apprezzavano il servizio in branco, non avendo capito
la bellezza pedagogica-educativa del Libro della Jungla. Anzi Kipling fu
considerato un autore imperialista, per cui nacquero le più strampalate
metodologie di alberi, fate, gnomi, ecc. Dal momento che le giovani capo
branco, le famose “cheftaines” letteralmente capo-tana, scopiazzate dal
contemporaneo scautismo francese, anch’esso ovviamente in crisi, non
avevano un ambiente di formazione, si pensò di inserirle in un clan,
come se non esistesse un fuoco di scolte! Da lì la nascita delle unità
miste di terza branca, i Flan, nome, a mio parere, assolutamente
insensato. Da quel momento fu tutta una corsa verso la assurdità e la
falsità psicologica degli educandi. Nacquero i Branchi misti, con i
lupetti e le lupette, nacquero i riparti misti, addirittura, nei primi
anni, con le squadriglie miste. Mi ribolle il sangue ricordando come
possa essere stata contrabbandata come una grande conquista il fatto di
avere in sieme ragazzine e ragazzini con la speciosa giustificazione che
già tanto a scuola erano insieme e anche in famiglia. Come se non si
sapesse quanto un ragazzo senta il desiderio di vivere in quell’età con
i suoi coetanei, cimentarsi con loro, avere la possibilità di vivere
avventure da grandi e non cincischiare con le ragazzine. Eppure la
stampa associativa di allora, “L’esploratore” riportava grandi titoli
del tipo: “AGI+ASCI= AGISCI” per preparare un po’ alla volta la nascita
di un’unica associazione.
Io ero Capo Riparto e soffrivo a dover combattere contro quella che
doveva essere un aiuto educativo ed invece mi metteva in continua
difficoltà.
In parallelo a quanto scritto sopra, ecco le proposte o le critiche al
“mio” scautismo:
1. la vita all’aperto era deviante, perché allontanava i giovani dai
veri problemi sociali, bisognava abolirla, ”Lo scautismo lascia il bosco
per entrare in città” era lo slogan.
2. Un branco di Lupetti di Conegliano partecipò, guidato dal suo Akela,
ad un picchettaggio in una fabbrica, forse la Zoppas.
3. la tecnica scout viene ridicolizzata: cosa serve imparare il morse
quando ci sono le radio trasmittenti? Senza capire lo sforzo educativo
richiesto ad un ragazzino per memorizzare e la soddisfazione di riuscire
a comunicare con gli altri: una sorta di magico mondo segreto.
4. l’uniforme è colonialista e ricorda la prevaricazione degli Inglesi
sui popoli di mezzo mondo. Inoltre nasconde le differenze di classe: in
uniforme non si riconosce un bambino di famiglia povera da uno ricco,
mentre è importante far capire fin da piccoli che bisogna battersi per
l’uguaglianza sociale! E poi in borghese nessuno riconosce che sei uno
scout.
5. L’alzabandiera al campo va abolita perché è un retaggio fascista e
nazionalista.
6. I ragazzi devono esprimersi liberamente, senza codici particolari di
comportamento.
7. La comunità deve essere assolutamente spontanea: non esiste un capo,
non esiste la Corte d’Onore, ma il Consiglio della Legge, una sorta di
assemblea generale di tutto il riparto. Il Capo è una sorta di “Unus
inter pares”. Non deve esistere “Un’educazione direttiva”. Tutte le
decisioni, a qualsiasi livello, devono essere prese in forma
assembleare. Non esiste il capo, ma solo una sorta di porta voce
dell’assemblea.
8. Quando il riparto è misto, non esiste “UN” capo ma la “Diarchia” cioè
la direzione comune di capo donna e capo uomo. Non succede così anche in
famiglia?
9. Lo spirito di servizio viene stemperato in modo impressionante con la
assurda divisione dei riparti in due età: 12-14 ranger; 14-16 pionniers.
I quali ultimi fanno per lo più viaggi di tipo turistico, in barba al
concetto del csq. che aiuta i suoi squadriglieri.
10. La spiritualità deve essere una libera scelta: non ha nessun valore
educativo la preghiera; la messa al campo, se c’è, è facoltativa. Si
arrivò alla cancellazione della frase “Con l’aiuto di Dio” nella
formulazione della promessa per non turbare la libertà degli educandi.
11. Degli articoli della Legge alcuni perdono importanza, come quello
dell’obbedienza agli ordini (il 7°), il 10°; ma tutta la Legge, come la
Promessa assumono un’importanza molto relativa.
12. L’articolo 5° (cortese e cavalleresco) perde significato dal momento
che le ragazze sono dei semplici squadriglieri che bisogna richiamare se
necessario anche con parole e gesti forti: non sono l’altra metà del
mondo da scoprire un po’ alla volta nella loro genuinità e freschezza.
13. Per vivere insieme alle ragazze nello stesso riparto o addirittura
nella stessa squadriglia i ragazzi devono rinunciare a molto della loro
genuinità maschile: i giochi fatti di forza fisica, di coraggio, di
spirito di avventura devono essere addolciti per permettere anche alle
ragazze di parteciparvi. Così le ragazze devono un po’ adattarsi allo
spirito maschile: gli uni e le altre devono rinunciare a qualcosa della
loro identità proprio nell’età in cui si pongono le basi dell’età adulta
dove ci saranno uomini veri e donne vere.
14. B.P. venne considerato un militarista, un colonialista, un uomo che
non poteva aver fatto nulla di buono. Lo scautismo così com’era stato
vissuto fino a quel momento doveva essere rifiutato e fondarne uno nuovo
aderente alla società cambiata: all’uomo della frontiera doveva essere
sostituito l’uomo della lotta di classe.
Gli ultimi anni 60 ed i primi 70 furono caratterizzati da un continuo
logorio sia a livello nazionale che locale, con continue riunioni tra i
fautori del nuovo corso e coloro che giudicavano lo scautismo di B.P.
ancora valido ed efficace. L’ultima assemblea generale dell’ASCI si
svolse, se non erro, nel 1969 a Roma. Fu una cosa triste: del vecchio e
genuino scautismo non era rimasto quasi niente. Fu convocata dall’allora
presidente, Salvatore Salvatori, il mio capo campo. Erano passati solo 8
anni, eppure il vecchio leone non contava più niente. L’incontro si
doveva svolgere in borghese: noi scrivemmo un telegramma di protesta e
ci recammo a Roma in uniforme. All’ingresso della “Domus pacis” c’era
Salvatori che quasi pianse vedendoci in uniforme. Evidentemente non era
riuscito ad imporsi sui nuovi smaniosi di novità.
L’assemblea si svolse senza ordine alcuno. Una mozione fu votata di
notte, quando la stragrande maggioranza era andata a letto. Di lealtà ne
respirammo veramente poca. Tornammo a casa con l’esatta sensazio ne che
ormai eravamo agli sgoccioli.
Si giunse infine all’aprile del 1974.Stranamente il direttivo dell’ASCI
e quello dell’AGI si erano riuniti nella stessa struttura, una delle
tante di Roma. Così, stranamente, entrambi i direttivi votarono lo
scioglimento delle rispettive associazioni e la nascita della nuova,
l’AGESCI.
Dopo tale risultato, tutti si riunirono insieme e la nuova assemblea
dopo la comunicazione dei rispettivi responsabili (io ricordo solo il
maschile che era la buon’anima di Bruno Tonin, di Vicenza), acclamò la
nuova nascita con l’esortazione “bacio, bacio!!” che avvenne tra i due
responsabili. Che bello!.
Non ci fu un’assemblea, non furono coinvolti i capi brevettati, non si
lasciò il tempo alle realtà locali di discuterne: un colpo di mano
vergognoso!.
Noi del Treviso 2° e una parte delle ragazze del Treviso 1° non
accettammo il fatto compiuto: a ottobre non versammo la quota del
censimento e con quei soldi fondammo un’associazione “Gruppi e Ceppi
Scout Cattolici Treviso”. Come Treviso, altre realtà non aderirono
all’AGESCI come alcune di Roma, di Jesi, di Palermo, ecc. Nell’aprile
del 1976 alcuni capi romani fondarono, di fronte ad un notaio di Roma
l’Associazione Guide e Scouts d’Europa Cattolici, aderenti alla
Federazione dello Scautismo Europeo.
A settembre anche la realtà trevigiana aderì alla nuova associazione che
svolse il primo campo scuola nel novembre dello stesso anno a
Montegemoli, in Toscana.
Questo è quanto la mia memoria mi riporta! Salvo errori ed omissioni!
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Da Azimuth 1-2011
La nascita dei
“Gruppi e Ceppi Scout Cattolici” a Treviso
Claudio Favaretto
Gli ultimi anni di vita dell’ASCI, la gloriosa associazione nata nel
1916, furono caotici e confusi. Molti Capi facenti parte del Gruppo
Treviso 2°, me compreso, erano entrati nell’associazione ancora da
ragazzini, ma ora, diventati Capi responsabili di altri ragazzi, non
riuscivano più a capire cos’era rimasto di quella proposta educativa che
aveva entusiasmato loro e tanti altri dopo di loro. Ci opponemmo con
tutte le nostre forze contro la deriva dello scautismo cattolico di
quegli anni, sia in sede locale (Commissariato Provinciale,
Commissariato Regionale), sia a livello nazionale.
All’ultima Assemblea Nazionale dell’ASCI, dopo aver mandato un
telegramma di protesta, partecipammo, forse noi soli di Treviso, in
uniforme. La convocazione, infatti, parlava di intervento in borghese,
quasi ci si vergognasse della nostra uniforme!
Comunque le cose precipitarono: furono assunte via via decisioni per noi
del Treviso 2° veramente aberranti. Elenco le più importanti:
1) conduzione femminile dei branchi;
2) clan misti;
3) precisa scelta politica;
4) critica all’uniforme;
5) critica alla Legge Lupetto ed Esploratore;
6) gestione collettiva delle unità;
7) abolizione della squadriglia di B.-P. diventata un semplice gruppo
spontaneo;
8) scelta cristiana vista solo come una delle ipotesi;
9) abolizione dell’alzabandiera perché la bandiera era un simbolo
nazionalistico.
Mi soffermo solo un attimo solo sul primo punto dell’elenco. Per noi, e
non solo per noi, ovviamente, la figura di Akela nel metodo lupetto è
insostituibile e per il bambino diventa uno dei modelli da seguire. Come
si poteva proporre una figura femminile?
Come ben si sa, malgrado tutte le opposizioni provenienti da ogni parte
d’Italia, i Consigli Generali dell’ASCI e dell’AGI il 4 maggio 1974,
alle ore 23,50 approvarono l’unificazione delle due associazioni dando
vita all’AGESCI.
Noi del Treviso 2° non accettammo mai questa decisione che era frutto di
un incontro di vertice: infatti non ci fu un referendum nemmeno tra i
capi brevettati nazionali. E io ero uno fra questi. Fu una decisione
presa sopra le nostre teste e contro la nostra volontà. Ma non ci
arrendemmo. Mentre si cercava una collocazione più grande, ben
consapevoli che una realtà locale, sia pur forte (eravamo, censiti,
350), non sarebbe stata in grado di sopravvivere, il nostro Gruppo, di
concerto con il Ceppo ex-Agi Treviso 1°, diede vita ad una Federazione
di “Gruppi e Ceppi Scout Cattolici – Treviso”. Era il 14 ottobre 1974.
Ci dedicammo con enorme entusiasmo e con tutte le energie disponibili a
far funzionare questa nuova struttura.
Così furono distribuiti i compiti: uniformi, statuto, stampa, economia,
formazione Capi. Tutto doveva essere costruito e messo in condizione di
funzionare.
Questa Federazione durò due anni, mentre il Capo Gruppo,
l’indimenticabile Francesco Piazza, cercava agganci a livello nazionale.
Trovò alleanze in Piergiorgio Mingo di Jesi, Sergio Durante e Attilio
Grieco che gli parlarono della Federazione dello Scautismo Europeo.
Il Direttivo della nostra Federazione di Treviso, dopo aver esaminato lo
Statuto degli Scouts d’Europa, convenne che questa era finalmente la
nostra collocazione, che non ci chiedeva di rinunciare a nessuno dei
valori in cui credevamo, anzi ne aggiungeva uno di importante:
l’Europeismo, cioè la dimensione internazionale, tanto cara a B.-P. E
dall’ottobre del 1976 facciamo parte, noi tutti, dell’Associazione Guide
e Scouts d’Europa Cattolici.
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Da Azimuth 6-2011
Monsignor Giovanni Bordin
Claudio Favaretto
Eravamo smarriti, noi adolescenti e giovani Scout di Santa Maria del
Rovere, dopo l’improvvisa morte del nostro amatissimo assistente, don
Ugo de Lucchi, avvenuta proprio il giorno di san Giorgio del 1959. I
campi estivi si erano svolti quasi sotto il peso di questa grave
perdita, ma bisognava ora rivolgersi al futuro, nella speranza che fosse
inviato in parrocchia un sacerdote in grado di sostituirlo, almeno in
parte.
Giungevano voci che sarebbe arrivato un giovane sacerdote, conoscitore
di musica, ma assolutamente digiuno di Scautismo. Bisogna sapere che don
Ugo era un grande intenditore di musica e che molti di noi erano sia
cantori che Scout.
Eravamo, perciò, un po’ delusi, ma desiderosi di incontrare il giovane
prete, che giunse, finalmente, uno dei primi giorni di ottobre.
Ci piacque subito: corpo robusto, faccia rotonda, sorriso aperto,
cordialità contagiosa. Si rese subito conto che veniva a raccogliere una
grande eredità spirituale lasciata da don Ugo, e con umiltà cercò di
capirla ed interpretarla in modo molto rispettoso.
Un po’ alla volta entrò nello spirito e nella prassi dello Scautismo,
così che lentamente divenne il nostro punto di riferimento. Una cosa ci
stupì subito, oltre all’umiltà: la sua grande disponibilità. Non si tirò
mai indietro, anche di fronte a richieste che forse potevano arrecargli
dei fastidi. Ad esempio, non avendo mai dormito sotto tenda, la novità
poteva essere poco gradevole: egli reagì facendosi fare una tenda alta,
robusta e larga, in cui si potesse muovere agevolmente, data la sua
massiccia corporatura.
L’inconsueta realizzazione fu ironicamente battezzata dagli Scout
presenti al suo primo campo “caponera”!
Fu un uomo di profondo equilibrio e di grande saggezza, che prodigò nei
suoi contatti con capi e ragazzi, quando
andavano a trovarlo per un
consiglio o per un conforto. Prima di prendere delle decisioni
importanti rifletteva, ma una volta decisa la strada, non aveva
esitazioni di sorta. Così ci sostenne nei momenti complicati della
nostra vita Scout: allo sdoppiamento del Treviso 1°, mediante il quale
nacque il nostro Treviso 2°, al rifiuto di confluire nell’Agesci appena
formata nel 1974, per appoggiare l’idea della nascita dei “Gruppi e
Ceppi Scout cattolici di Treviso” confluiti poi nell’Associazione
Italiana Guide e Scout d’Europa Cattolici” nata nel 1976, alla crisi che
investì lo stesso Treviso 2°, da cui nacquero gli attuali gruppi
presenti in città. La sua parola, la sua saggezza furono fondamentali
nella ricerca di nuovi equilibri che la storia, in qualche modo,
imponeva.
Dopo alcuni anni di permanenza in parrocchia, don Giovanni scelse di
entrare tra i Sacerdoti Oblati perché gli sembrava di fare troppo poco
rispetto a quanto aveva sognato per la sua vocazione. In questa veste fu
richiesto dal Vescovo di allora di dirigere la “Vita del Popolo”, il
settimanale diocesano. Egli non aveva dimestichezza con quel mondo, ma
accettò come sempre con umiltà, circondandosi, però, di una squadra di
collaboratori molto validi che garantirono un vero successo nella
diffusione del settimanale nelle famiglie della diocesi.
Come tutti, aveva delle piccole défaillances, alcune anche
involontariamente spiritose. Come quando disse, durante un’omelia al
campo, che ”uno Scout deve farsi un bel segno di croce, la sera, prima
di addormentarsi, ed un altro, al mattino, prima di svegliarsi”. Queste
piccole manchevolezze ce lo rendevano ancora più vicino. Ricordo che nel
1964, in occasione di un Campo Nazionale Rover, raggiungemmo con la mia
macchina, Forcella d’Acero, nel Parco Nazionale d’Abruzzo, dove avremmo
dovuto incontrare il nostro Clan. Naturalmente l’appuntamento andò a
vuoto: non c’erano ancora i telefonini! Allora decidemmo di lasciare la
macchina sul ciglio della strada per inoltrarci nel bosco, alla ricerca
di un sito dove piantare la tenda, visto che ormai stava imbrunendo.
Percorse alcune centinaia di metri, incontrammo un solitario cane
pastore abruzzese, che ci ringhiò contro; ed egli, postosi velocemente
dietro di me, mi disse sottovoce: “ ci vorrebbe un bastone”. Per fortuna
il cane proseguì il
suo cammino e noi il nostro. Raggiungemmo finalmente
una radura, circondata da enormi faggi, che fu di nostro gradimento.
Prima di piantare la tenda, però, don Giovanni volle celebrare la messa,
utilizzando gli zaini come base per l’altare. Ricorderò sempre quella
messa inconsueta. Il celebrante si girava verso di me, alla fine di ogni
preghiera, per sollecitare la mia risposta. Ma poco prima del Canone, mi
chiese, sottovoce, se desideravo comunicarmi. Eravamo soli per un raggio
di chilometri, ma la domanda era rispettosa, perciò posta a bassa voce!
Don Giovanni accompagnò lungo il cammino della vita quei numerosi
adolescenti che lo accolsero nel 1959. Egli celebrò i nostri matrimoni,
battezzò i nostri figli, ricevette le nostre difficoltà e i nostri
dubbi: è stato veramente una guida per noi.
Vent’anni fa, fu incaricato dal Vescovo di dirigere la parrocchia di
Riese Pio X. Che strano: era stato mandato proprio nella parrocchia da
dove era proveniva e dove era sepolto quel sacerdote ch’egli aveva
sostituito: don Ugo de Lucchi. Anche nella nuova realtà don Giovanni
seppe profondere, malgrado le malattie, tutta la sua carica umana e
spirituale che erano parte della sua straordinaria personalità. L’ho
avvertito durante il funerale quanto fosse benvoluto: perché chi fa il
bene non può che essere amato. E lui di bene ne ha fatto molto, e di
questo sarà da Dio sicuramente ricompensato. Ed ora riposano in pace
vicini, i due nostri cari assistenti.
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Da Azimuth 4-2012
Un amico degli scouts
Claudio Favaretto
“Che uccello è la mangusta?” Questa domanda spiritosa e improvvisa ci fu
rivolta dal vescovo in visita al campo della Valle solitaria che si
stava svolgendo non lontano dal passo della Mauria, nel 1964.
L’assistente ed io l’avevamo ricevuto, come si conviene, con il riparto
schierato in quadrato. Poi il Vescovo volle visitare il campo. Era stato
negli anni giovanili assistente Scout in una parrocchia di Vicenza, per
cui sapeva bene come valutare un campo. Allora le squadriglie, dopo il
“crack” raggiunsero i propri angoli per accogliere l’illustre ospite.
Dapprima si presentarono i Gheppi. Come si sa, il grido di squadriglia è
proprio un grido, non una comunicazione, per cui chi lo sente non
capisce proprio nulla. Così il vescovo, che mi chiese: “Cosa hanno
detto?” Al che risposi. “Gheppi, nel volo sicuri!”. Dopo aver salutato e
spronato la squadriglia a ben operare, raggiungemmo l’angolo dei Picchi.
Anche qui la presentazione di squadriglia fu indecifrabile, per cui
dovetti spiegare che il loro motto era “All’invito del bosco!”.
Soddisfatto, il vescovo fu accompagnato all’angolo delle Manguste che si
presentarono con un incomprensibile “Siamo sempre ardimentose!”. Allora,
rivolto verso
di
me, chiese delucidazioni, in quanto, rispetto ai primi due animali, la
mangusta non era certo un volatile. Ricordo questo episodio per far
comprendere quanto il presule fosse cordialmente vicino allo Scautismo,
come dimostrò in tante altre occasioni, poiché ci venne a trovare
pressoché ogni anno. Qualche anno dopo, al campo dell’”Airone”, quando
mi scorse mi disse: ”Ti vedo sempre!” e mi strinse forte la mano.
Monsignor Mistrorigo resse la diocesi di Treviso per un lungo periodo,
dal 1958 al 1988, nel periodo storico, perciò, del Concilio Vaticano II
a cui partecipò come Padre Conciliare. Fu un grande propugnatore delle
idee conciliari e un fervente sostenitore della Riforma Liturgica, che
anch’egli contribuì a disegnare in qualità di esperto. Ricordava con una
certa fierezza che durante il Concilio nei banchi a lui vicini sedevano
il vescovo Albino Luciani e il vescovo Karol Wojtyla, che sarebbero
diventati da lì a poco pontefici.
Proprio con Giovanni Paolo II intrattenne un bel rapporto, come
dimostrano i soggiorni di quest’ultimo nel Castello di Lorenzago,
pertinenza della Diocesi trevigiana. La sua cura pastorale fu rivolta
soprattutto alle parrocchie, parecchie delle quali furono create proprio
da lui, come quella di San Pio X° a Treviso, dove iniziai il mio
servizio di capo. Nella sua lunga missione pastorale ha somministrato il
sacramento della Cresima a migliaia di ragazzi e ragazze, ha ordinato
oltre duecento tra sacerdoti e diaconi. Sensibile ai valori dell’arte,
ha istituito il Museo diocesano di Arte sacra; inoltre ha riformato il
seminario, ha costruito “Casa Toniolo” come sede delle associazioni
cattoliche, ha edificato la “Casa del clero” per accogliere i sacerdoti
anziani, ha acquistato la casa di villeggiatura di Lorenzago. Come si
capisce, è stato un presule pieno di iniziative. Monsignor Mistrorigo ha
avuto un’enorme importanza nella nostra storia associativa. Infatti, il
21 ottobre 1984 emanò il “Decreto di erezione in associazione pubblica
della sezione diocesana degli Scouts d’Europa”. Fu, quindi, uno dei
primi vescovi a riconoscere canonicamente la nostra associazione, sia
pure a livello locale, in quegli anni così difficili. Il 12 giugno 2004,
il “Centro studi Don Ugo De Lucchi” volle festeggiare i 50 anni di
episcopato del vescovo, invitandolo ad un incontro presso la “Casa Scout
Anna e Franco Feder” a Treviso. Il vescovo esordì dicendo: “Sono
contentissimo di essere qui, perché sono parente degli Scout: nonno e
bisnonno!”. Dopo aver passato in rassegna alcuni dei suoi molti ricordi,
Mistrorigo affermò: “Ora siamo in un periodo di magra per quanto
riguarda il mondo dell’associazionismo; l’unica associazione che rimane
in piedi è lo Scautismo”. Poi il vescovo ha ricordato la figura del
nostro indimenticabile don Ugo De Lucchi, di cui espresse le doti, “un
misto di zelo e dinamismo” e il dolore per la prematura scomparsa: “Ma
dal cielo sono convinto che continui a seguire benevolo i suoi Scout”.
A conclusione dell’incontro, il vescovo ha pronunciato una vivace
definizione e un fervido augurio: “Cosa sono gli Scout? Sono giovani in
piedi. Questa è la vostra missione di domani: stare in piedi ed aiutare
gli altri ad alzarsi. Io vorrei che voi foste all’avanguardia nella
vostra diocesi. E ricordate che quando sarò di là, guarderò se gli Scout
si comportano bene!”. Rimase operoso anche per i lunghi anni successivi
al termine del suo mandato di vescovo titolare, dedicandosi alla stesura
e pubblicazione di testi di contenuto biblico e liturgico ed aiutando
nell’amministrazione del sacramento della Cresima. Negli ultimi tempi
aveva perso l’uso della parola, ma il suo sguardo era ancora vivo e
penetrante. È tornato alla casa del Padre sabato 14 gennaio 2012. Pochi
giorni dopo, il 26 marzo, avrebbe compiuto 100 anni. Grazie, don Antonio
Mistrorigo, ti porteremo con noi: ci hai sempre voluto bene e ci hai
aiutato nei momenti difficili e complessi della nostra storia
associativa.
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Da Azimuth 3-2013
ESTOTE PARATI
Claudio Favaretto
Il 6 maggio del 1976, alle 21,06, un terribile terremoto colpì il
Friuli. L’impatto emotivo sulla nazione fu enorme, alla vista di interi
paesi rasi al suolo, con un impressionante numero di morti, in continuo
drammatico aumento.
Come al solito, oltre alle forze preposte, molti volontari partirono da
ogni parte d’Italia. Anche numerosi Clan e Fuochi della nostra neonata
Associazione partirono per raggiungere le zone terremotate.
Io, Capo Clan, ero insegnante di liceo e non potevo abbandonare il posto
di lavoro nella parte conclusiva dell’anno scolastico. Perciò partimmo
appena liberi dagli impegni scolastici, attorno alla metà di giugno.
Ma io ero molto perplesso. Sapevo bene che tanti volontari erano più di
intralcio che di aiuto. Mi chiedevo in cosa saremmo potuti essere utili
noi, quindici ragazzi, privi di strumenti adatti a rimuovere macerie e
inadatti a intervenire in qualche modo su una popolazione smarrita e
bisognosa di ogni cosa. Devo dire che partii di malavoglia, senza farlo
trasparire ai miei Rovers. Ma l’“Estote parati” era pur sempre il nostro
motto, per cui accettai la sfida.
I Clan e i Fuochi che ci avevano preceduto avevano svolto il loro
servizio a Vito d’Asio, un paese che non avevo neppure mai sentito
nominare prima di allora. Giungemmo nel tardo pomeriggio, dando il
cambio a due Clan, uno di Treviso ed
uno di Roma.
Il paese era stato completamente distrutto per cui era stata allestita
una tendopoli su un prato fuori dal centro abitato. Nei pressi era stata
edificata una costruzione in legno che fungeva da cucina e da mensa per
gli abitanti e per coloro che lavoravano alla bonifica del sito. Erano
presenti anche alcuni soldati, comandati da un tenente, con compiti
logistici. Ci era stato assegnato uno spazio non lontano dalla tendopoli
per piantare le nostre tendine, cosa che facemmo, allestendo anche una
sorta di cucina-soggiorno riparata da teli, secondo tradizione. Poco
lontano si era accampata anche una pattuglia di Scolte, con la loro
capo, che svolgevano il loro servizio contemporaneamente a noi.
La sera stava scendendo, gli altri Clan se n’erano andati e io mi
interrogavo sul significato della nostra presenza: mi sembrava che
fossimo quasi degli intrusi in un contesto già organizzato.
Cenammo in mensa, assieme a tante persone, per poi recarci a riposare,
dopo esserci messi d’accordo con il responsabile della tendopoli, un
bravo e simpatico giovane, tarchiato, cordiale e deciso, che il giorno
seguente noi saremmo stati disponibili alle richieste della gente, per
servizi adatti alle nostre capacità.
Infatti così avvenne. Su una parete della mensa fu posta una bacheca
dove gli abitanti che avevano bisogno di qualche lavoro scrivevano le
loro necessità: così, a gruppi, i Rovers si dedicarono ad ogni tipo di
servizio.
Aiutammo a sistemare la legna, a rastrellare il fieno, a diradare
piantine di granoturco, a mettere in ordine masserizie, a raccogliere le
immondizie.
Le Scolte, d’altra parte, distribuivano, a chi ne faceva richiesta, capi
di vestiario giunto da ogni parte d’Italia ed anche da diversi stati
europei. Ma mi restava un po’ l’amaro in bocca di sentirmi quasi di
peso, perché anche noi usavamo della mensa. Così decidemmo di cucinare
per conto nostro: durò poco, perché la signora che gestiva la mensa ci
disse che la nostra presenza insieme agli altri era non solo gradita, ma
desiderata: non erano certamente i nostri pasti a mettere in crisi la
loro cucina.
Ciò mi fu di grande insegnamento. Perciò ritornammo a condividere i
pasti con tutti i paesani e i lavoranti con cui, un po’ alla volta,
entrammo in relazione. Gli abitanti erano con noi estremamente cordiali
e grati dei piccoli servizi che facevamo: avevano perso quasi tutto, ma
erano così ospitali e generosi che ci invitarono più di una volta a
pranzo o a cena, a condividere quel poco che avevano.
Una cosa veramente commovente ed educativa per il clan intero. Ma il
vero servizio, senza che lo cercassimo, si presentò sotto altra forma.
La sera dopo il nostro arrivo, improvvisammo un fuoco di bivacco tra di
noi, per concludere la giornata con qualche canto e la recita delle
preghiere. Si unirono quasi tutti i militari e qualche persona della
tendopoli. La sera successiva preparammo un cerchio con delle panchine
per l’eventuale pubblico che difatti si presentò in proporzione ben
maggiore della sera precedente. La terza sera decisi di non svolgere il
fuoco di bivacco, per non dare l’impressione che fossimo dei
saltimbanchi. Ma mi pentii amaramente quando giunsero dei camion pieni
di soldati provenienti non so da dove: erano venuti proprio per stare
insieme attorno al fuoco e cantare in compagnia.
Dalla sera successiva la nostra giornata si concluse puntualmente con il
fuoco cui parteciparono sempre più persone: così dal tenente di Vito
d’Asio si passò al maggiore per finire al colonnello, giunto l’ultima
sera con la moglie e un numero enorme di soldati. Naturalmente ai canti
dovemmo aggiungere giochi, scherzi e ban. L’attesa era diventata così
grande che alcuni soldati rinviarono la loro licenza pur di restare fino
alla fine della nostra settimana di servizio.
La conclusione dell’ultimo fuoco fu veramente straordinaria: dopo le
preghiere recitate compostamente da tutti, cantammo il canto dell’addio
e devo dire che la commozione prese tutti. Eravamo andati per obbedienza
a quell’“Estote parati” che ci contraddistingue, e ci ritrovavamo con la
consapevolezza di aver svolto uno dei servizi più belli e nobili: aver
fatto felici almeno per qualche ora, persone o colpite dalla tragedia o
inviate a svolgere impegnativi compiti.
↑▲↑
Da Azimuth 2-2014
Ritratto di Don Rino Olivotto
Una persona di cui non ci si può dimenticare
Claudio Favaretto
Si è spento mercoledì 22 gennaio 2014 Mons. Rino Olivotto, 85 anni, per
molti anni Assistente dei nostri Gruppi Scout di Treviso e di alcuni
campi scuola associativi. Di seguito il ricordo di due Capi.
L’avevo incontrato per la prima volta per strada, mentre passeggiava con
un comune amico, che me lo presentò. Era grande, massiccio, di fiero
portamento, proporzionata la testa dove risaltavano i bianchi capelli
rimasti nella nuca, vivacissimi gli occhi dietro le lenti di leggera
montatura, grande la bocca dalle labbra carnose che si aprivano
frequentemente in un cordiale sorriso. Era sicuramente una di quelle
persone che non si dimenticano. Poteva avere fra i cinquanta e i
sessant’anni.
Qualche tempo dopo, per una di quelle sorprese imperscrutabili ed
imprevedibili della Provvidenza, divenne l’Assistente ecclesiastico del
Clan di cui ero allora il capo. E da lì cominciò una lunga e feconda
collaborazione con gli Scouts d’Europa Cattolici, che ebbe termine il 22
gennaio scorso, con la sua dipartita.
Ero andato a trovarlo pochi giorni prima, in seminario. Mi accolse, come
di consueto, con cordialità affettuosa ed insieme ricordammo fugacemente
, data la mia fretta, i begli anni condivisi nel servizio, a volte
faticoso, ma sempre gioioso. Ci lasciammo con il proposito di rivederci
presto. Ed invece...
Mons. Olivotto, per noi tutti don Rino, era rimasto affascinato dallo
Scautismo fin dal primo momento. Il rispetto delle regole, la lealtà, il
senso del servizio gratuito, l’entusiasmo dei giovani anche di fronte
alle difficoltà, la condivisione della fatica e della gioia, la
Spiritualità della Strada, il rispetto e l’amore per il Creato, pallido
segno visibile della bellezza del Creatore: tutto ciò era consonante con
la sua personalità. Aveva studiato al Collegio Capranica di Roma, lì
inviato dai superiori del seminario di allora, che avevano colto
l’intelligenza e le risorse umane di quel giovane prete. Ritornato,
insegnò per un trentennio Teologia morale in Seminario di Treviso.
Eppure la sua cultura non pesò mai nei rapporti interpersonali,
specialmente con i giovani che lo sentirono subito un loro fratello
maggiore, capace di capirli, di sostenerli e di incoraggiarli.
Così, se don Rino era rimasto affascinato dallo Scautismo, noi fummo
affascinati da lui. Il suo spirito di servizio fu da subito esemplare,
in sintonia perfetta con l’ideale proposto dallo Scautismo cattolico.
Ricordo affettuosamente la sua prima esperienza di Campo Mobile, che fu
anche il suo battesimo del fuoco. Essendo ormai avanti con gli anni e di
corporatura poco agile, non seguì il Clan nelle impegnative tappe di
montagna, ma lo raggiungeva, quando possibile, alla sera, nelle soste
per il pernottamento. Quando ci si incontrava, era raggiante per il
riuscito appuntamento e premuroso nell’offrirci tutti i generi di
conforto che la sua macchina conteneva in abbondanza.
Quella macchina gli serviva anche da riparo, perché, avendo tolti i
sedili da un lato, ne aveva ricavato un vano giusto per il sacco-letto.
Era felice di condividere
con noi la gioia del fuoco da cucina e la
fraternità spontanea che scaturiva dai fuochi di bivacco.
Amava moltissimo celebrare la Messa all’aperto, con l’altare allestito
sul luogo con i mezzi di fortuna che la natura ci offriva di volta in
volta. Si compiaceva di tutto ciò che il clan faceva, a partire dal
luogo scelto per il pernottamento. “Ma che bel posto!” esclamava, anche
se non sempre ciò corrispondeva a verità. Il suo ottimismo trascinava i
giovani e i capi, che sentivano in lui una solida presenza e un virile
aiuto.
Pur dotato di grande carisma, si adattò sempre umilmente alla
personalità dei capi con cui svolse il suo servizio, profondamente
convinto della laicità dell’Associazione. Dopo aver ascoltato la
relazione di un’attività ben riuscita, usciva con un’espressione rimasta
proverbiale: “Godo!” ad esprimere una profonda partecipazione
all’evento.
Di squisita attenzione umana ed educativa, costruì tutte le relazioni
interpersonali con profonda delicatezza, anche nei momenti più difficili
e con le persone di carattere spigoloso.
Caro don Rino, tu hai saputo infondere in tutti coloro che hanno avuto
la gioia di conoscerti, il senso promettente della vita, riuscendo a far
vedere, al di là delle difficoltà, un orizzonte positivo. Caro don Rino,
tu hai saputo con noi godere delle piccole grandi cose che il Creato ci
offre e ci hai fatto intuire che il cielo sereno altro non è che il
lembo azzurro del manto di Dio.
Buona strada, Gabbiano bianco!
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Da Azimuth 2-2017
Europa e Scouts d’Europa
Claudio Favaretto
Il 25 marzo scorso si sono svolte a Roma varie cerimonie per ricordare
con solennità la ricorrenza del sessantesimo anniversario dei Trattati
di Roma. Devono essere stati molto importanti questi trattati se il loro
ricordo ha mobilitato capi di stato e di governo di tutta Europa.
Infatti, nel 1957 nacque la Comunità Economica Europea (CEE) con lo
scopo di eliminare ogni barriera doganale all’interno dei sei stati
aderenti ( Belgio, Olanda, Lussemburgo, Francia, Germania e Italia). Ma
fu deciso anche di dar vita all’Euratom, un organismo che doveva mettere
insieme esperienze scientifiche per poter utilizzare l’energia nucleare
a scopi pacifici. Ma la storia dell’Europa unita nasce una decina di
anni prima, nel 1947. Dopo la terribile tragedia della seconda guerra
mondiale, ci si rese conto che non si poteva continuare a ritenere di
risolvere i problemi delle nazioni con la forza come avevano
drammaticamente dimostrato le due guerre mondiali. Tali scontri avevano
provocato milioni di morti, intere generazioni di giovani uomini uccisi
nei campi di battaglia, milioni di bambini orfani, giovani madri vedove,
città distrutte, industrie rase al suolo, campagne abbandonate, povertà
e miseria. Ma per fortuna dopo il 1945 l’anelito di pace finalmente
raggiunta spinse più a cercare la collaborazione degli altri stati che
non la sfida. Alcuni grandi statisti di quel tempo facilitarono questo
processo positivo: Adenauer in Germania, (quella occidentale perché
l’orientale era ancora sotto il controllo sovietico), Schuman in Francia
e De Gasperi in Italia furono convinti assertori dell’unità e della pace
tra i popoli europei. Tutti e tre profondamente cattolici, diedero alla
loro azione politica uno slancio ideale che forse oggi si è un po’
perduto. Ecco in sintesi le tappe dell’Unione Europea. I primi paesi che
pensarono di abolire le barriere doganali per far circolare liberamente
merci e persone furono Belgio, Olanda e Lussemburgo i cui governi in
esilio a Londra firmarono nel 1944 un protocollo d’intesa che originò il
Benelux. Francia e Regno Unito estesero al Benelux l’alleanza militare
che legava i due paesi fin dal 1947. Nel 1948 nacque l’OECE
(Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica) e l’anno
successivo il Consiglio d’Europa, organismo che univa gli stati membri
con lo scopo di difendere la democrazia e far rispettare i diritti
umani. Ma il patto più importante di questi primi anni fu quello firmato
a Parigi nel 1951che istituì la CECA (Comunità Europea del Carbone e
del’Acciaio), un istituto sovranazionale che aveva il compito di
razionalizzare le risorse in ambito carbosiderurgico. Se si pensa che il
carbone ed il ferro furono sempre considerate le materie prime
indispensabili per creare un’industria pesante, cioè treni, navi,
motori, ma anche carri armati, cannoni, si capisce l’importanza di
condividere le risorse a fini pacifici. Bisogna ricordare che le regioni
di confine come l’Alsazia e la Lorena da parte francese e la Saar e la
Rhur da quella tedesca sono propriamente minerarie e quindi furono
sempre contese.
Nel 1957, come si è già visto nacquero la CEE e l’Euratom. Dieci anni
più tardi i tre organismi sovranazionali esistenti vennero unificati e
coordinati da una Commissione Europea, sostenuta due anni dopo dal
Parlamento Europeo. Nello stesso anno nacque lo SME, Sistema Monetario
Europeo con il compito di evitare contrasti tra le divise dei vari
stati, in preparazione di una moneta unica.
L’entusiasmo per la casa comune europea aumenta progressivamente così da
spingere altri stati a diventarne membri. Infatti tra il 1973 e il 1986
aderirono alla CEE altri sei paesi: Regno Unito, Danimarca, Irlanda,
Grecia, Portogallo e Spagna. Dopo l’unificazione della Germania nel 1990
venne stipulato il trattato di Maastricht che indicava i termini della
vita comune dei vari stati membri a proposito di economia, di difesa
comune, di diplomazia, di cittadinanza. Nacque finalmente l’UE, l’Unione
Europea, alla quale aderirono Austria, Finlandia e Svezia. E nel 1999 si
realizzò un altro sogno che sembrava impossibile: gli stati membri
adottarono una moneta comune, l’euro ( salvo Danimarca, Svezia e Regno
Unito). Da quell’anno si poté viaggiare con la sola carta d’identità e
senza il pensiero di cambiare valuta in buona parte dei paesi europei.
Nel 2000 aderirono all’UE altri dodici stati: Estonia, Lettonia,
Lituania, Polonia,
Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Slovenia, Romania, Bulgaria,
Malta e Cipro. Sembrava che il sogno alimentato per molti anni dai più
sensibili statisti fosse finalmente diventato realtà.
Ma i problemi cominciarono a scuotere la costruzione europea,
soprattutto sotto la spinta di due imprevisti fattori: la disordinata e
massiccia l’immigrazione dai paesi del terzo mondo e la crisi economica.
Rispuntarono tensioni all’interno dei vari stati in cui cominciarono ad
affermarsi partiti politici antieuropeisti che attribuivano e
attribuiscono all’Europa la responsabilità delle difficoltà economiche e
sociali oltre all’insicurezza personale. Si è giunti pertanto alla
drammatica uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, in seguito ai
risultati del referendum del 23 giugno dello scorso anno, la famosa
Brexit. Ci vorranno due anni di trattative per giungere alla separazione
definitiva, ma la scelta inglese ha scosso l’Europa. Altri movimenti
antieuropei hanno preso coraggio da questo fatto soprattutto in Francia,
ma anche la nostra Italia non ne è immune.
Ma noi Scouts d’Europa siamo profondamente europeisti, a partire già dal
nome! Noi abbiamo sempre creduto all’abbattimento delle frontiere e alla
libera circolazione
delle idee e delle persone. Noi pensiamo che la fraternità
internazionale sia il più valido antidoto all’insorgere di tensioni,
rivalità e perfino odi tra i popoli. Per questo facciamo parte di una
UIGSE- FSE che significa Unione Internazionale delle Guide e Scouts
d’Europa – Federazione dello Scoutismo Europeo a cui appartengono ben 17
associazioni ufficiali oltre a cinque in attesa di riconoscimento. Per
questo partecipiamo di slancio agli incontri internazionali: dalle
Giornate Mondiali della Gioventù agli Eurojamboree e agli Euromoot. Ma
sono diventati frequenti anche incontri organizzati a livello locale tra
unità di nazioni diverse per esempio per i campi estivi di scout o di
guide ma anche di rover o scolte.
Forse non tutti i politici sanno quello che noi scout sappiamo. La
bandiera europea che sventola anche sui pennoni dei nostri campi ha un
significato profondamente religioso: l’azzurro ricorda il manto della
Vergine e le 12 stelle si rifanno alla citazione dell’Apocalisse laddove
si parla di una ‘Donna vestita di sole con una corona di 12 stelle’,
sempre a proposito della Madonna. E a Lei chiediamo di far sì che
l’Europa riprenda il suo cammino di unità, di giustizia e di pace.
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Intervento di Claudio al fuoco di
bivacco del centenario
31 luglio 2007 in Casa Scout Anna e Franco
Feder
RICORDO DI CHECCO
Mi è stato
chiesto di fare un breve intervento attorno a questo fuoco di
bivacco, di raccontare qualche aneddoto tratto dalla vita scout.
Ma questa
sera penso che sia importante dire una testimonianza di Checco. Per
uno strano disegno, il suo funerale coincide con il centenario dello
scoutismo che lui tanto capì, amò e fece amare. Di fronte ad una
personalità così grande e complessa ognuno di noi può aver colto
sfumature diverse e molto personali. Perché le personalità ricche si
possono leggere da molteplici angolazioni e mai completamente.
Io ero un
ragazzino quando lo conobbi, alla mia prima uscita di riparto, e ne
rimasi affascinato. Cercavo ogni scusa per andarlo a trovare a casa
sua, in vicolo Monte Piana, perché ero assetato di cultura. E lui
era molto colto.
Voi sapete
che ogni casa possiede un proprio odore: la sua sapeva di acqua
ragia, di colori ad olio, di mobili antichi.
Il mio
povero appartamento popolare a confronto era un niente.
Ricordo che
alle pareti c'erano dei suoi quadri, ma anche alcuni del nonno
paterno, pittore di valore anch'egli.
E poi
ceramiche dipinte, e alcune delle sue prime prove di artista, tra
cui un quadro con un glicine, se non ricordo male, che egli aveva
dipinto sul fondo di una scatola da scarpe quando aveva sedici anni.
E per me era già straordinario.
Ma la stanza
che mi piaceva di più era la «stanzetta Pipolini», dove c'era un po'
di tutto: scene di teatro dei burattini, tele, drappi, ricordi della
guerra che egli aveva vissuto sempre in quel luogo. In quella
stanzetta posai come Mowgli per dei cartelloni che servivano per la
mostra scout svoltasi nell'estate del 1954 a Palazzo dei Trecento.
Sempre a proposito della guerra, ricordo che mi raccontò che quando
c'erano
gli
allarmi aerei, la
famigliola, Checco, Gino e la mamma Dina, si
rifugiavano nella cantina, ospitando anche dei
vicini. Ma una notte fu bombardata la vicina caserma De
Dominicis e la paura fu grande. Mentre tutti
pregavano, egli confessò ad alta voce alla mamma di
essere stato lui a fare non so quale marachella.
Allora la signora Dina, donna di fiero carattere,
incurante delle bombe, gliele suonò di santa
ragione, nonostante l'intercessione dei presenti, per
i quali la mancanza commessa era nulla di fronte
al pericolo.
I nostri legami s’infittirono quando egli divenne
capo riparto. Ed allora io, come tanti dei presenti,
mi accorsi di quanta generosità, di quanto spirito di
servizio era capace. Spesso si licenzia
dal
lavoro per
venire al campo.
Erano gli anni meravigliosi del binomio Checco -Don
Ugo.
Bisogna ammettere che tutti noi che li abbiamo
vissuti siamo stati fortunati a crescere accompagnati
da persone così straordinarie e significative.
Ciascuno di noi si sentiva importante, grazie a loro, per
la vita del riparto.
Poi, con il passare degli anni, le distanze dovute all'età si
ridussero sempre più: tra quindici e
venticinque anni le distanze sono enormi, tra
ventidue e trentadue, molto meno.
Così nell'agosto del 1963 passammo insieme alcuni
giorni in una casera in Alpago: io studiavo e lui
dipingeva.
C'eravamo messi d'accordo con un vecchio contadino
che aveva la stalla poco lontano, che ci
portasse il latte la mattina. Ma il buon uomo
arrivava alle cinque e mezzo, bussando fragorosamente alla nostra
porta, gridando: «Giovinetti, il latte!» E Checco rispondeva
immancabilmente «se’l ‘ndasse
a farse...».
Perché bisognava riconoscere che Checco non fu mai
uno sportivo e per lui l'alba
era una cosa misteriosa e tormentosa.
Malgrado questo si sobbarcò imprese epiche come i due
campi in Francia, specialmente quello del
1972, quasi prova della futura nuova associazione,
che sarebbe nata nel 1976.
La storia più recente è conosciuta da tanti e
ciascuno ne conserva gelosamente nel cuore parole,
gesti, risa
e anche profondi dolori.
La perdita dell'Anna Maria lo segnò profondamente e
in modo definitivo.
Un giorno mi confidò: «Vedi, quando vedo una cosa
bella o faccio un bel quadro non so più a chi mostrarli».
Malgrado fosse circondato dall'affetto di tanti
amici, alcuni dei quali lo hanno assistito fedelmente ed
amorevolmente fino all'ultimo e ai quali va tutta la nostra
gratitudine si sentiva solo nell'animo.
E poi l'ictus che lo colpì dodici anni fa lo rese
ancora più solo.
Tutti noi abbiamo patito nel vedere una persona così
brillante e creativa, costretta al balbettio e all'inerzia.
Ma le espressioni del volto e degli occhi tradivano
la passata ricchezza interiore.
Per finire voglio solo aggiungere che sempre sono
rimasto impressionato dalla sua personalità e
dalla scelta profonda di servizio scout e più
schiettamente cristiano.
Un uomo così straordinario poteva pensare solo a se
stesso, alla sua carriera che si presentava
strepitosa se a vent'anni aveva già vinto il premio
Internazionale «Cittadella» per l'incisione.
Eppure aveva un animo così generoso che in gran parte
la trascurò, senza mai perderla, certamente,
per l'ideale scout.
E poi la dimensione creativa: io restavo incantato a
vedere uscire dalle sue mani un paesaggio
meraviglioso, o un volto, o una caricatura.
Tra l'altro scriveva in modo affascinante, prose e
poesie: queste abbiamo potuto goderle un po'
tutti. Grazie a Gianni che ce ne ha fatto conoscere
due abbastanza recenti.
E come dimenticare i suoi canti, sempre pieni di
slancio e di fiducia nell'avvenire, con quella Fede nella
Provvidenza che egli non ha mai abbandonato.
Possiamo dire veramente di essere stati fortunati ad
aver avuto un genio per amico e maestro.
Che il Signore lo ricompensi di tutto il bene che ha
fatto!
CASTORO DEL FIUME - Claudio.
Intervento
scritto di Claudio su Luciano Furlanetto in occasionedella mostra
degli acquerelli del 2014 al battistero del Duomo di Treviso
Ricordo di Luciano Furlanetto per tutti gli amici Ciano
Dividerò questo semplice ricordo in quattro parti:- l'amicizia-
lo scoutismo- gli affetti familiari- l'arte.
L'amicizia
Ci siamo conosciuti sui banchi di scuola, in seconda media. Lui era
già formato mentre io ero ancora piccolino, per cui i vecchi banchi
di legno di un tempo per Ciano erano troppo corti e per me troppo
lunghi. Diventammo subito amici e compagni di banco, con le
caratteristiche di cui sopra.
Lui era già bravo in disegno, materia in cui ero - e sono rimasto-,
una schiappa. Ma riuscivo bene in latino, per cui ci si aiutava nei
compiti domestici e questo rinsaldava ancor più il nostro sodalizio
che si ampliava anche con i discorsi e le reciproche confidenze che
costituiscono un sostrato importante nell'amicizia tra adolescenti.
Dopo la terza media le nostre strade scolastiche si divisero: Ciano
frequentò il liceo artistico, allora presente solo a Venezia, mentre
io mi avviai a malincuore verso un istituto tecnico industriale a
Mestre.
Ma la nostra amicizia non si interruppe, anzi si rafforzò per un
legame che da allora ci legò per sempre: lo scoutismo.
Lo scoutismo
In seconda media io divenni caposquadriglia e naturalmente cercavo
nuovi adepti. Cominciai a corteggiare Ciano che a quel tempo faceva
parte di una squadretta di basket della parrocchia di Sant'Agnese.
La mia perseveranza fu premiata e già nell'estate di quell'anno, il
1955, Ciano partecipò al campo estivo a Domegge di Cadore, con la
mia squadriglia, i Castori.Salvo
qualche interruzione dovuta ai casi della vita e agli impegni
familiari, giocammo il grande gioco scout fino al suo ritorno alla
casa del Padre. Tra i segni di pista scout, ce n'è uno particolare:
un cerchio con un punto al centro, che significa "sono tornato a
casa". Questo stesso segno noi lo usiamo per i fratelli che cihanno
lasciato.
Insieme abbiamo percorso l'Italia e l'Europa per innumerevoli
incontri nazionali e internazionali, per campi scuola, per uscite,
per riunioni. La nostra collaborazione è stata costante e fedele,
tanto da diventare modello, anche per gli altri capi, di corretti
rapporti, cosa non sempre facile quando si lavora insieme.
La sua disponibilità e la sua lealtà erano veramente profonde. La
sua sensibilità lo portava a privilegiare i contatti umani e nei
campi scuola curava particolarmente la conoscenza e l'amore per la
natura, così come la profondità e la bellezza della liturgia.
Eravamo così affiatati che quando c'era un incontro al chiuso e non
in tenda, sceglievamo di dormire insieme per non disturbare gli
altri, visto che il nostro russare era simile al lavoro di una
segheria ed era ben noto ai vicini. Ma prima di addormentarci ci si
augura sportivamente "Vinca il migliore!".
Gli affetti familiari
E' questo un ambito così privato ed esclusivo nel quale non mi
permetto certo di entrare.
Dico solo che, da quanto ho potuto notare, Ciano è stato un marito
esemplare per attenzione e disponibilità, ed un padre preoccupato
per la crescita dei figli, verso i quali ha sempre manifestato
delicata ma continua attenzione educativa, unita ad un profondo e
rispettoso affetto.
L'ultimo piano affettivo è stato quello dei nipoti, nel cui
confronto era tenerissimo e pronto a registrare nel suo profondo
ogni gesto di affettuosa gratitudine.
L'arte
Conservo ancora il quaderno di caccia del 1955, nel quale Ciano mi
disegnò, ad acquerello, alcuni fiori che la nostra squadriglia aveva
raccolto per una "caccia natura", termine scout per definire una
ricerca sulla natura del luogo.
Questo per dire quanto sia stata precoce la chiamata all'arte
pittorica di Ciano. La sua è stata una vera vocazione che
fortunatamente per lui e per noi egli ha seguito per tutta al vita.
Per lui perché non c'è niente di più appagante che seguire la
propria vocazione, per noi perché abbiamo potuto godere per molti
anni della sua creatività.
Ciano ha utilizzato diverse tecniche nel corso degli anni, seguendo
l'impulso del momento o la richiesta della committenza. Così ha
usato l'affresco nella chiesa di San Floriano, la terracotta nella
chiesa della sua parrocchia, Sacro Cuore, la ceramica sempre a San
Floriano. Ma penso di poter dire che la tecnica prediletta sia stata
l'acquerello, probabilmente per la velocità di esecuzione unita alla
pressoché infinita scelta dei colori. Su un foglio di grana grossa,
egli tracciava con la matita veloci segni di contorno, poi intingeva
il pennello nell'acqua e sceglieva e creava le tonalità che aveva in
mente. Era stupefacente osservare con quanta sicurezza la mano
seguiva il pensiero creativo. Così ha disegnato anche durante i
lunghi giorni di degenza , quasi per lasciarci ancora un'ultima
testimonianza della sua bravura e della sua profonda fede.
E questa mostra lo testimonia.
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da Azimuth 5 2013
Altro ricordo
scritto di Claudio su Ciano
Ci conoscemmo sui banchi di scuola: era la 2a media, sezione F. La
scuola aveva sede in centro città, in un palazzotto del 1600, poco
adatto alla vita degli studenti e al di fuori di ogni attuale regola
antincendio, antisismica, senza vie di fuga, salvo quella
effettivamente usata delle scale al termine delle lezioni: era
proprio una via di fuga.
I banchi erano del tipo “compact”, in legno massiccio, con i
sedili facenti blocco unico con il piano di studio.
Per questo motivo, a me che ero piccolino, la distanza tra sedile e
piano risultava eccessiva, ma per Ciano, già sviluppato fisicamente,
era inadeguata per difetto, per cui le sue ginocchia sporgevano dal
piano di lettura.
Ciano era più alto di me, ma anche più grande, avendo ripetuto le
prime due classi. Egli non amava le materie teoriche, specie il
latino, ma aveva già una chiara predisposizione per il disegno.
Infatti, terminate le medie, frequentò con successo il Liceo
artistico.
Nacque così tra di noi un sodalizio negli studi, per cui ci si
aiutava a vicenda, maturando un po’ alla volta un’amicizia profonda
che, salvo qualche periodo dovuto alle necessità che la vita
talvolta impone con durezza, è durata fino all’altro giorno.
Ciano aveva esercitato subito su di me, come capita ai ragazzini,
un’ammirazione per la sua statura e, in qualche modo, per la sua
esperienza di vita: due anni sono molti a quell’età, per cui io lo
consideravo come un fratello maggiore. Ma c’era un grosso cuneo
nella nostra amicizia: egli faceva parte di una squadretta
parrocchiale di pallacanestro, mentre io ero da pochi mesi capo
squadriglia. Mi pareva che, se io fossi stato capace di catturarlo,
non ci sarebbe stato grande gioco o relazione di hike che i Castori
non avrebbero vinto. La mia tenacia vinse e Ciano entrò nello
Scautismo, che da allora divenne il suo mondo di riferimento
educativo.
Vorrei ricordare alcuni episodi della nostra comune vita scout,
altrimenti mi sembrerebbe che il ricordo si riduca ad una
elencazione di qualità. Al campo del 1958, svoltosi a qualche
chilometro da Taibon agordino, lui era già aiuto capo e utilizzava
qualsiasi scusa per andare in paese con la Lambretta
dell’assistente, anche più volte al giorno, per portare la posta,
diceva lui. L’allora capo campo, l’indimenticabile Checco Piazza,
compose per Ciano la seguente canzoncina: “Il postino della Val
Bissera, va in paese da mattina a sera, dove va, chi lo sa, per un
bollo, per un bollo va in città!”.
In tutti noi nacque il sospetto che la “tabacchina” dove
egli acquistava i bolli, fosse una bella ragazza.
Per mancanza di spazio ricorderò solo un’altra caratteristica che
rinsaldò ulteriormente la nostra amicizia. Noi costituimmo la più
formidabile coppia di russatori che l’associazione abbia mai avuto!
Così, un po’ per non disturbare gli altri, un po’ perché gli altri
non ci sopportavano più, alle riunioni associative che si svolgevano
al chiuso, come nel famoso collegio “Cerini”, sceglievamo di dormire
nella stessa camera. Ma prima di infilarci sotto le coperte ci
dicevamo: “Vinca il migliore!” e dopo poco cominciava la
battaglia.
Appartiene alla storia associativa anche la presunta presenza di
orsi ai Campi scuola di Genga, mentre si scoprì che si trattava
“semplicemente” di noi due concertisti.
Ciano è stato un capo straordinario che diede il meglio di sé
durante la preparazione e
lo
svolgimento dell’EJ di Viterbo: sua l’impostazione pedagogica che
vide sempre al centro l’utilizzo di quel formidabile strumento
educativo che è la squadriglia. Fu tra l’altro uno scrupoloso Capo
Campo in svariati campi scuola, dove riuscì a fondere, in un solo
omogeneo messaggio la tecnica, il metodo, la liturgia e la
spiritualità.
La nostra assidua frequentazione per le numerosissime riunioni
romane, ci portò a salutarci, anche quando ci si trovava a Treviso,
alla “romana”: “A Cià!” “A Clà!”.
Attento ed affettuoso in famiglia, nonno tenerissimo, Ciano godette
solo ultimamente l’apprezzamento del grande pubblico per le qualità
artistiche. Ricordo una Via Crucis dove si fusero la poesia in
acrostici di Luigi Pianca, le musiche inedite del maestro Antonello
e gli acquerelli di Ciano che, proiettati sul grande schermo come
accompagnamento visivo del racconto evangelico, suscitarono intense
emozioni nel vasto pubblico presente.
Nello scorso mese di dicembre fu allestita nel Battistero del Duomo
di Treviso una mostra intitolata “Vedere il Vangelo di Luca”,
composta da 290 splendidi acquerelli di Ciano, così coinvolgenti che
il presentatore si rammaricò che il vivere appartato e schivo di
Ciano avesse privato la cittadinanza della sua creatività pittorica.
A Cià, uomo buono e leale, amico sincero e fedele, che la tua
sensibilità artistica ed educativa gioiscano negli spazi infiniti,
sotto lo sguardo amorevole di Dio!
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Da DISEGNO SCOUT Forma, Stile e Metodo
Il valore educativo del disegno
nello scautismo
Claudio Favaretto
O
Signore, nostro Dio,…
se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai fissate,
che cosa è l’uomo perché te ne ricordi,
il figlio dell’uomo perché te ne curi?
Eppure l’hai fatto poco meno che gli angeli,
di gloria e di onore lo hai coronato..
[Salmo 8]
Solo l'uomo, infatti, è in grado di apprezzare l'opera di Dio, solo
l'uomo è capace di esprimere ed esternare i suoi sentimenti perché
sa usare delle forme di comunicazione che nessun altro essere
vivente è in grado di utilizzare: la parola, la musica, il canto, il
disegno...
È talmente grande il bisogno di esprimersi nell'uomo che lo si nota
fin dai primi giorni di vita: il balbettio, così come i gridolini,
lo stesso pianto sono mezzi di comunicazione.
Lentamente i bambini si impadroniscono del linguaggio orale, ma
sentono un impellente bisogno di comunicare anche in altro modo per
cui cominciano a fare degli scarabocchi con qualsiasi cosa lasci un
segno: matita, pennarelli, gesso, tizzoni spenti, e su qualsiasi
superficie: tavoli, pavimenti, piastrelle, muri, con grande
disappunto dei genitori che non sempre apprezzano questo aspetto
artistico dei propri figli! Ma a ben osservare ci si accorge che il
bambino cerca di rappresentare quella finestrella di mondo che via
via conosce: un fiore, un animale, la bicicletta, il sole,
l'arcobaleno. E se tu non capisci i suoi disegni, lui te li spiega.
Guai a ridicolizzare questi tentativi, perché significherebbe
interrompere il suo sistema di comunicazione.
Oltre al mondo esteriore, il bambino di tre-quattro anni sente il
bisogno di esprimere i suoi sentimenti, di comunicare gli affetti.
Ecco, quello che si allega è un disegno importantissimo: la piccola
Gaia, di quattro anni appena compiuti, ha rappresentato la sua mamma
e il suo papà. È una bambina felice, che vive il suo rapporto
familiare con grande serenità. Non ci sono grandi differenze tra le
due figurine, anche la loro altezza è uguale: sono entrambi preziosi
per lei.
Tra poco si sforzerà di disegnare anche i due fratelli più grandi e
poi tutto il suo mondo affettivo: i nonni, le maestre, le
amichette... Non sono importanti a quest'età le proporzioni né è
importante la somiglianza: l'importante è trovare lo strumento utile
a manifestare l'amore.
Questa
necessità di disegnare viene coltivata anche a scuola, alla materna,
alle elementari e alle medie. Poi si affievolisce fin quasi a
spegnersi, salvo in quei ragazzi che scelgono una scuola artistica o
professionale. Negli altri ordini di studio si predilige
l'educazione linguistica, per cui per moltissimi adulti la capacità
pittorica è ferma al tempo della terza media!
Se gli insegnanti che la nostra Gaia incontrerà saranno bravi,
utilizzeranno il disegno non solo per far crescere le sue capacità
artistiche, ma anche come strumento educativo formidabile. Lo
scautismo è ben consapevole di ciò e vi pone la massima attenzione
fin dall'età Lupetto e Coccinella. A quest'età il disegno è
strumento prezioso per lo sviluppo delle capacità grafiche e
dell'abilità manuale, per l'auto-espressione, per l'acquisizione di
conoscenze, per l'educazione estetica, ma soprattutto per la
formazione del carattere.
Spesso i bambini sono disordinati, frettolosi, indisciplinati,
incostanti. Il disegno li aiuta alla precisione, li stimola a
portare a termine il lavoro iniziato, li sprona a curare il
risultato, li spinge a superare il divario tra l'idea e la
realizzazione.
L'età successiva quella degli Esploratori e delle Guide, ha come
fulcro educativo centrale la Squadriglia. E la vita di Squadriglia
stimola la creatività!
Come fissare il fascino dell'avventura vissuta, non letta né
ascoltata, ma partecipata? Come raccontare ai propri compagni di
classe le imprese realizzate?
Certo
con le foto, ma soprattutto con il disegno: quello di un paesaggio,
della torretta di segnalazione costruita con le proprie mani, di un
particolare di un incastro difficile. La memoria storica diventa il
Libro di marcia di Squadriglia, il particolare volume all'interno
del quale vengono raccolte, nel tempo, notizie e cronache su
attività, uscite e campi; generalmente confezionato dagli stessi
ragazzi con una rilegatura in stile scout, è arricchito da disegni e
fotografie.
E poi ci sono le prove di classe, le specialità, il Viaggio di Prima
classe.
Quante occasioni per utilizzare la propria capacità artistica e
fissarla nel Quaderno di Caccia personale! È questo un oggetto di
grandissima importanza perché spinge l'adolescente a migliorarsi
continuamente.
Per arrivare a questo punto, infatti, bisogna vincere alcune
caratteristiche tipiche dell'età come l'insicurezza, il timore del
giudizio altrui, la tentazione del non-finito, la frettolosità che
porta alla trascuratezza del proprio compito.
Il bravo Capo Riparto conosce questi aspetti del carattere degli
adolescenti e cerca di correggerli assegnando ad ogni squadriglia
delle missioni in cui, grazie alla collaborazione dei
capisquadriglia, ogni ragazzo sarà coinvolto per raggiungere la méta
comune.
Il disegno diventa ancora prezioso strumento educativo nel
superamento delle prove di classe e nella conquista delle
specialità.
Nella prova di conoscenza della natura, ad esempio, la riproduzione
delle nervature di una foglia, lo schizzo di un nido, la
rappresentazione di un seme portato dal vento, o di un fiore svelano
all'adolescente la bellezza del creato che ad un esame superficiale
inevitabilmente sfuggirebbe. E la bellezza suscita stupore nella
giovane anima che viene così sollecitata a riflettere su Colui che è
stato e continua ad essere l'Autore di una bellezza preparata
proprio per ciascuno di noi, purché siamo capaci di vederla!
In età Rover e Scolta il disegno diventa una delle chiavi più
importanti per conoscere quel mondo in cui il giovane si inserirà
con tutto il suo bagaglio di conoscenze, con la sua ricchezza di
idealità, con la sua forza morale. Così l'Inchiesta di Clan e di
Fuoco, la particolare attività di indagine e conoscenza
socio-culturale finalizzata ad approfondire un determinato
argomento, arricchita dai suoi schizzi, avrà il sapore di una
scoperta viva: la scoperta di un giovane uomo e di una giovane donna
capaci di interpretare e capire un paesaggio geografico, ma anche
antropico. Così certamente si stupiranno di fronte all'insolito
dipanarsi delle strade di un villaggio di montagna, agli edifici
civili e rustici, agli affreschi di una cappella solitaria in aperta
campagna o elevata sopra un colle dominante il paese, quasi a
proteggerlo. Cercheranno di capire le usanze di quel villaggio, la
sua cultura, le sue tradizioni. E le difficoltà del vivere e gli
strumenti per renderle sopportabili, come, ad esempio, la
condivisione del lavoro, del sostegno collettivo di fronte alle
disgrazie inevitabili. Ma anche la gioiosa partecipazione alle feste
patronali, con i canti, le danze, la cucina tradizionale.
Un giorno, in caso di necessità, anche i nostri Scout, Rover e
Scolte, saranno in grado di portare, il loro aiuto a quella gente
che hanno conosciuto nel loro andare, curiosi e intelligenti
pellegrini lungo la Strada.
In definitiva al momento della Partenza avranno interiorizzato la
fantasia creatrice del Lupetto e della Coccinella, lo slancio
avventuroso dello Scout e della Guida e l'esperienza di servizio del
Rover e della Scolta. E saranno in grado di distinguere tra la
faccia, cioè l'esteriorità, e il volto, cioè l'interiorità, di chi
incontrano nel cammino della loro vita.
Oggi il primo termine ha quasi totalmente sostituito il secondo. Ma
per il teologo e vescovo S. Isidoro di Siviglia, è il volto che
esprime lo svolgersi dei tempo con le fatiche e le gioie che la vita
riserva a ciascuno di noi.
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