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L'ATTIVITA' DI SCRITTORE DI CLAUDIO
dalla presentazione dell'ultima sua pubblicazione

Claudio Favaretto è nato nel 1941 a Treviso, città da cui si è allontanato raramente.
Compiuti forzatamente studi tecnici per necessità familiari, dopo essersi diplomato perito chimico, trovato lavoro come insegnante di disegno in una scuola professionale, l'anno successivo, con laborioso salto acrobatico, ottenne la licenza magistrale che gli consentì di frequentare a Padova la facoltà di Magistero, seguendo finalmente la sua vocazione.
Laureatosi con il massimo dei voti e la lode in Materie Letterarie con la tesi in Storia dell'Arte sui Riccati, una famiglia di matematici e studiosi di architettura fioriti nella seconda metà del Settecento a Treviso, ha trascorso molti anni insegnando animosamente lettere nei Licei scientifici.
Ma non ha mai tralasciato la sua passione per l'arte, utilizzando ogni occasione per far conoscere ai propri ed altrui alunni quanto di bello la nostra città e tutto il contado potevano offrire.
Sposato, padre di quattro figli e nonno felice di quattro nipotini [per il momento], ha dato alle stampe due libri, editi da ADLE Edizioni di Padova.
Il primo, 'IL Melograno", edito nel 1998, raccoglie una serie di vicende e ricordi autobiografici, il secondo, 'Il compagno di Tomaso" del 2006, è un racconto lungo, ambientato nella Treviso medievale al tempo di Tomaso da Modena.
Nel 2017, ha dato alla stampa il libro "TREVISO e il suo territorio" Piazza editore.
Da ultimo nel aprile del 2023 ha pubblicato con l'Arte Grafica Casale sul Sile il libretto "I SEGRETI della Cappella Malchiostro - Duomo di Treviso"
Ha collaborato a lungo con la rivista "Taste Vin" con articoli tesi a far conoscere l'arte, la storia e le tradizioni della Marca trevigiana.
Da diversi anni è direttore della biblioteca del capitolo del duomo di Treviso.


da "Taste Vin" n.6/2018
Sant’Augusta di Serravalle
di Claudio Favaretto

Capita, scorrendo un elenco di santi, di imbattersi in un nome pressoché sconosciuto, al di là di una località ben precisa. Li sentiamo, questi santi, molto domestici, come se appartenessero alle nostre famiglie.
E’ questo il caso di sant’Augusta che viene sempre accompagnata dal luogo dove fu martirizzata: Serravalle di Vittorio Veneto.
Le vicende della sua vita sono leggendarie ma è ben viva la profonda venerazione di cui gode da secoli, specialmente fra i Vittoriesi.
Le notizie che la riguardano ci sono state tramandate nel 1581 da un certo Minuccio Minucci, conterraneo della santa e segretario del papa Clemente VIII. Sono quindi molto lontane dall’epoca in cui visse Augusta. E’ vero che ogni leggenda conserva in sé un nucleo di verità, in questo caso resa più concreta da alcuni dati storici.
I più antichi (1234) risalgono al Medio Evo e citano il “monte di sant’Augusta”. Ciò significa che a quell’epoca la santa era sicuramente venerata. Anche gli Statuti di Serravalle parlano di lei.
Ben poco si conosce anche del santuario che sorge sul monte Marcantone che ancor oggi viene popolarmente indicato come il monte di sant’Augusta.
Con ogni probabilità su quel luogo sorgeva una postazione militare che dominava lo stretto passaggio dell’unica via percorribile dalla montagna verso la pianura. Il nome stesso di “Serravalle” ribadisce la morfologia del luogo.
Sicuramente i Romani fortificarono quella strozzatura viaria costruendo il “castrum”, cioè un accampamento militare difeso da poderose mura. Era così importante quel luogo che fu utilizzato in seguito da tutti i vincitori delle contese, sicuramente dai Longobardi e poi dai Franchi. Ma niente ci impedisce di pensare che alla caduta dell’Impero romano, i primi popoli barbari provenienti da est, i Visigoti, si siano impadroniti di tutte le fortezze già appartenute ai Romani. Testimonianze di quel tempo sono visibili ancor oggi come la torre di segnalazione all’inizio della val Lapisina e i resti di…



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a "Taste Vin" n.5/2018
San Martino di Tours
di Claudio Favaretto

L’autunno ormai avanzato ci fa desiderare ancora un po’ di tepore, quel tepore che arriva con la cosiddetta “estate di san Martino”.
E’ questo uno dei santi più popolari il cui culto è diffuso in tutta l’Europa e in modo estremamente significativo in Italia. Basta scorrere l’elenco alla fine di un atlante geografico o stradale per vedere quante località grandi e piccole portino il suo nome. E quante chiese, basiliche, monasteri siano a lui dedicati.
Quali sono i motivi che lo hanno reso così celebre e venerato? Io penso che la genuina sensibilità popolare sia stata colpita soprattutto dal gesto famoso compiuto da Martino dividendo il suo mantello per darne metà al povero intirizzito dal freddo.
E’ un gesto che commuove per l’immediatezza: Martino non ci pensa su un attimo e con un colpo di spada compie un gesto di gratuita generosità, di vera carità cristiana.
Eppure anche questo santo viene da lontano.
Era nato in una città della Pannonia, l’odierna Ungheria, nel 316 cioè pochi anni dopo l’Editto di Costantino che concedeva la libertà di culto ai cristiani. Dico questo perché Martino è uno dei primi santi non martiri della storia del Cristianesimo.
Il padre era un ufficiale dell’esercito romano di stanza in quella lontana regione dell’impero. Per questo il bambino viene chiamato Martino, cioè piccolo Marte, il dio della guerra.
Ma il padre fu presto trasferito a Pavia per ragioni di servizio. Come ogni figlio di veterani, anche il piccolo era destinato alla carriera militare che abbracciò, sotto la spinta del padre, a 15 anni con giuramento. In breve tempo il ragazzo si fece benvolere ed apprezzare al punto da essere promosso “circitor”, incarico che prevedeva l’ispezione notturna dei posti di guardia.
Durante una di queste ispezioni, mentre era di guarnigione ad Amiens, in Gallia, vide un povero seminudo intirizzito dal gelo della notte invernale a cui di slancio diede la metà del suo caldo mantello che aveva diviso con la spada.
Questo…



da "Taste Vin" n.6/2017

La religiosità popolare: i Santi Ausiliatori
di Claudio Favaretto

Sono chiamati santi ausiliatori un gruppo di 14 santi che venivano invocati ciascuno per un particolare aspetto della vita quotidiana. L’elenco non fu identico dovunque per cui si possono trovare differenze da luogo a luogo. Così san Biagio era invocato contro il mal di gola, santa Barbara contro i fulmini e la morte improvvisa, san Cristoforo contro gli uragani, e così via.
In Italia il loro culto collettivo non è molto attestato, mentre in Germania è diffuso, soprattutto nella Baviera dove probabilmente nacque e si diffuse, specialmente negli anni delle grandi epidemie a metà del 1300.
A metà del 1700 nel comune di Bad Staffelstein,nella diocesi di Bamberga, fu costruita, in onore degli ausiliatori, una splendida basilica in stile barocco, méta di migliaia di pellegrini ogni anno.
Invece non appartiene all’elenco ufficiale, pur essendo stato uno dei santi più venerati, sant’Antonio abate.
Fino a qualche anno fa, infatti, chi entrava in una stalla delle nostre contrade notava subito, attaccata ad un palo di sostegno o all’interno della porta, un’immagine sacra: un vecchio dalla lunga barba attorniato dagli animali tipici di una fattoria.
Quel santo era sant’Antonio abate, da non confondersi con l’omonimo sant’Antonio da Padova. Il santo abate era celebrato il 17 gennaio con una grande festa che culminava nella benedizione degli animali che un tempo erano addirittura portati nel sagrato della chiesa.
Credo che attualmente il santo non sia più di moda, almeno nell’Italia del nord, perché la modernità ha sostituito la religiosità con l’efficienza tecnologica e poi perché la cosiddetta civiltà contadina é scomparsa. Sono ormai ben poche le imprese agricole a conduzione famigliare: oggi si tende alla creazione di vasti possedimenti agricoli gestiti con macchinari sempre più sofisticati mentre le stalle accolgono numerosi capi di bestiame, allevati con i più moderni mezzi, dalla somministrazione del foraggio alla mungitura.
Ma vale la pena di…



da "Taste Vin" n. di febbraio 2007

La chiesetta dei Santi Gervasio e Protasio
di Claudio Favaretto

Il nostro territorio ospita numerose chiesette campestri, segno di un’antica e fedele religiosità tramandata nei secoli. Spesso sono costruzioni modeste dal punto di vista artistico, perché erette dalla pietà popolare che voleva manifestare con la sua operosità l’attaccamento alla fede dei padri, alla quale si rivolgeva in particolar modo per chiedere aiuto contro le avversità metereologiche o per ringraziare dopo un raccolto fruttuoso.
E così, anche la più mediocre conserva il fascino di un mondo ancorato ai ritmi millenari delle stagioni, a un tempo in cui la massima parte della popolazione traeva sostentamento dal lavoro dei campi. In tante di queste chiesette si concludeva il giro, attraverso i campi, delle ”rogazioni”, parola che deriva dal latino “rogare”, cioè chiedere l’aiuto divino, naturalmente, contro i temporali estivi o contro la siccità, cose che potevano rovinare interi raccolti e ridurre le famiglie contadine alla miseria e alla fame. Erano pratiche risalenti ancora agli antichi Romani sotto il nome di “ambarvali”, cioè di “feste attorno ai campi” guidate da sacerdoti con lo stesso nome, che con il passare del tempo erano state cristianizzate, pur mantenendone l’aspetto esteriore.
Queste pratiche religiose si svolgevano di buon mattino a partire dal mese di giugno. Il parroco, indossate la cotta e la stola, accompagnato da uno o più chierichetti, sostava presso un altarino improvvisato in mezzo ai campi o presso un “albero sacro” come se ne incontra ancora qualcuno: di solito si trattava di un carpino scapitozzato i cui giovani rami venivano piegati a formare quasi una nicchia in cui si poneva un’immagine sacra. Recitate alcune preghiere, il sacerdote benediva i campi circostanti.
Di tali funzioni liturgiche esiste ormai, purtroppo, solo il ricordo delle persone più anziane. In qualcuna delle chiesette sopra ricordate alle volte sono racchiusi dei veri capolavori artistici, spesso malauguratamente rovinati dal tempo e dall’incuria degli uomini.
E’ questo il caso proprio della chiesetta dei Santi Gervasio e Protasio che appare improvvisa in mezzo alla campagna di S. Pelagio, nella periferia nord-ovest del comune di Treviso, in una località chiamata “Roncole”.
Il nome merita una piccola spiegazione. Esistono diverse località, alcune diventate paesi importanti come Roncadelle o più ancora Roncade, che derivano dallo stesso termine, cioè “roncare”, vale a dire tagliare con la roncola, disboscare.
E’ evidente che gli antichi abitanti di S. Pelagio dovettero sottrarre al bosco planiziale che ricopriva la zona i campi da coltivare, con un lavoro ciclopico di dissodamento e di successiva sistemazione.
Questo accresce fascino ed attesa alla nostra chiesetta, anche per i Santi a cui è dedicata, poco comuni nel nostro territorio, ma ben presenti a Milano, in Lombardia e in Francia.
La leggenda che avvolge la loro storia ne fece due gemelli, giustiziati nel terzo secolo e i cui corpi furono rinvenuti da S. Ambrogio vescovo di Milano e da lui deposti sotto l’altare della basilica che porta il suo nome.
Ci si chiede come mai sia sorta in un punto così isolato, lontano da ogni importante via di comunicazione. L’impossibilità di fornire una risposta rende ancora più misteriosa la costruzione che sembra risalire addirittura al Mille, anche se per alcuni studiosi la data è da spostarsi più avanti di uno-due secoli, cioè al XII-XIII° secolo. Resta, comunque, una preziosa reliquia del passato.
L’edificio si staglia per il suo colore chiaro contro il verde dei prati o il bruno dei campi da poco arati. La si raggiunge percorrendo una breve carrareccia che lambisce un ampio vigneto a merlot e a cabernet sauvignon, a sinistra, e delle costruzioni agricole a destra. Sorge su un leggerissimo rialzo del terreno, forse una volta più marcato.
Si presenta come una semplice aula rettangolare, forse ampliata rispetto all’impianto originale, conclusa, però, da un’abside cilindrica, tipicamente romanica. Si resta subito colpiti dal suo orientamento, secondo l’antica usanza di orientare l’altare a est e l’ingresso principale a ovest. Tutta l’arte medievale è simbolica, per cui tale orientamento aveva lo scopo di ricordare che l’altare dove si celebra il mistero eucaristico, rappresenta la Luce del mondo, Cristo, quella stessa luce che, nell’armonia del Creato, viene portata dal sole che sorge.
Quando si esce dalla chiesa si va incontro all’occaso, al tramonto del sole, che ricorda l’effimero della nostra vita terrena. La facciata è mossa da un accenno di protiro, cioè di portico, mentre sulla parte a mezzogiorno si apre la porta secondaria.
Oggi la parete meridionale presenta quattro fori: due mezze lune, di evidente recente esecuzione e due monofore molto antiche, che sono coronate dall’armilla, un giro di mattoni posti longitudinalmente, elemento usuale dell’architettura romanica. L’intradosso dell’arco, cioè lo spessore del muro, porta tracce evidenti di decorazione, forse a fresco. La cornice che sostiene il tetto è a “dentelli di sega”, altro indizio di architettura medievale, come si può riscontrare in numerose case coeve di Treviso. Probabilmente i muri erano intonacati, come si può notare dalla facciata e da qualche frammento ancora esistente nella parete sud. Ma dove l’intonaco è caduto si può scorgere l’estrema povertà del materiale usato: ciottoli di fiume, intervallati, di tanto in tanto, da un rigo di mattoni. Il tetto è stato recentemente restaurato, ripristinando la consueta copertura a coppi alla veneta.
Sovrasta la costruzione un campaniletto cosiddetto “a vela”, molto comune nelle nostre chiesette campestri, con due fori che ospitano ciascuno una campanella. Si tratta di un’aggiunta molto recente, probabilmente ottocentesca, ma che non stona affatto nell’insieme.
Entrando dalla porta principale, quella ad ovest, lo sguardo abbraccia subito tutto il volume: l’aula rettangolare e la piccola abside. Ci si accorge subito che l’arco trionfale, quello che conduce all’abside, ha l’imposta molto ribassata, come se il piano del pavimento fosse stato rialzato. Ma ciò non può essere, perché si trova a livello del piano di campagna ed è difficile pensare che un tempo si dovesse scendere uno scalino per entrare nella chiesa. Il pavimento, da poco sistemato, è a tavelle di cotto, il soffitto, di recente restaurato, a capriate (e un po’ stona il nuovo del legno con la vetusta costruzione!), i muri sono per lo più spogli. Ma nell’abside si nota l’esistenza di tracce di un antichissimo affresco, a sinistra della piccola feritoia aperta esattamente al centro del semicatino, di una Madonna con il Bambino e Santa, di fattura due-trecentesca, su una tonalità fredda di verdi-azzurri.
Purtroppo questi lacerti sono tutto quello che resta di un affresco che Mario Botter, nel 1953, in un articolo pubblicato sul Gazzettino, definiva “un magnifico affresco del XIII° secolo” il cui stato di conservazione, allora, era “buono”! Secondo lo studioso, tale affresco servì da modello a “quello prodigiosamente conservatosi nella parete meridionale della chiesa”. In effetti, nei pressi della porta laterale, si può ammirare, malgrado lo stato di degrado, una splendida opera. Si tratta di una “Sacra conversazione”, cioè di un gruppo di Santi che attorniano la figura centrale, che è quella della Madonna che allatta il Bambino. La Vergine è assisa in un trono modesto dallo schienale arcuato che si collega a due montanti rotondi terminanti in due sfere di legno, quasi il lavoro di un falegname del tempo. Alla sua destra, in piedi, sta la figura aureolata di san Gervasio che reca nelle mani forse dei rami, il segno del suo martirio (fu, infatti, flagellato a morte), mentre alla sua sinistra si staglia la figura di una santa, identificata come S. Maria Maddalena, con la mano destra alzata e la sinistra forse reggente un vaso di unguenti, ma l’affresco è abraso e non consente una precisa lettura. Ancora più a sinistra conclude l’opera un santo stante, Protasio, con un particolare copricapo, per indicare la sua professione di medico, e con le mani molto discoste, quasi a reggere quella spada che lo giustiziò. I manti di tutti i personaggi sono di colore caldo, rosso-bruno, con le pieghe sottolineate da profonde ombreggiature, salvo la veste dell’ultimo santo, che è di colore verde.Bisogna ricordare, infine, una figura di Santo, forse di esecuzione secentesca, a destra dell’arco trionfale, rovinata in più punti.
E’ veramente un peccato che questo gioiello di fede e di arte sia stato trascurato al punto da mettere a rischio la stessa sopravvivenza degli affreschi, come purtroppo è già successo con quello dell’abside. Affreschi di quell’epoca ne esistono ben pochi anche in città, per cui sarebbe necessario che gli uffici competenti intervenissero subito, per evitare una perdita ulteriore del nostro patrimonio artistico.



dalla stampa locale ("Vita del popolo" o "Gazzettino"?)
Dante Alighieri, Treviso e la Biblioteca Capitolare
di Claudio Favaretto

Settecento anni fa, nel settembre del 1321, moriva a Ravenna, Dante Alighieri.
Come sì sa, mentre era a Roma per un'ambasceria presso il papa, Bonifacio VIII, la fazione dei Neri s'impadronì con la violenza di Firenze, scatenando l'odio contro la fazione avversa, quella dei Bianchi cui Dante apparteneva. E il poeta, accusato falsamente di baratteria, oggi si direbbe di tangenti e di guadagni illeciti, fu condannato all'esilio e alla confisca dei suoi beni, una tristissima usanza molto comune in quegli anni turbolenti.
Da allora il poeta, dopo un tentativo di rientrare a Firenze con la forza con i Bianchi esuli come lui, deluso e infastidito dalla compagnia "malvagia ed empia", se ne staccò e iniziò a peregrinare per l'Italia, in cerca di accoglienza. I biografi ci informano che si recò in Lunigiana, a Verona, ad Arezzo, ancora a Verona, finendo a Ravenna dove morì per una febbre malarica presa a Venezia. Ma, per noi, la curiosità più viva è se Dante sia stato anche a Treviso. Ormai la critica è convinta di sì. Anche se non ci sono documenti precisi, nelle sue opere alcuni richiami parlano della nostra città in modo esplicito così da stabilire perfino gli anni del suo soggiorno, tra il 1305 e il 1306, periodo in cui Treviso era governata dalla signoria dei Caminesi o da Camino.
Quali sono gli indizi? Il più noto è quello che si incontro nel canto IX del Paradiso, là dove si individua la città con il famoso verso “Ià dove Sile e Cagnan s'accompagna".
Si dice, giustamente, che questo verso poteva scriverlo solo chi aveva visto con i propri occhi che le due correnti, quella limpida del Sile e quella torbida del Cagnan Grande o della Pescheria, non si fondono subito, ma restano distinte per un bel po', si accompagnano, appunto, scendendo verso valle.
Il secondo indizio ci viene offerto dal canto XVI del Purgatorio dove un'anima dice a Dante che la corruzione si era diffusa nel mondo e che poche erano rimaste le persone oneste, tra cui, appunto "il buon Gherardo", cioè Gherardo da Camino, signore di Treviso, morto nel 1307.
Il terzo indizio riporta ancora il nome del Caminese e proviene da un'altra opera di Dante, Il Convivio: "[Poniamo] che Gherardo da Cammino fosse stato nepote del più vile villano che mai bevesse del Sile o del Cagnano, [e che il ricordo del suo antenato non si fosse ancora spento, chi oserebbe definire Gherardo un uomo rozzo?]". Le lodi fanno pensare a un debito di riconoscenza di Dante nei confronti del Signore di Treviso. La Biblioteca Capitolare conserva alcuni frammenti pergamenacei di eccezionale valore storico perché appartengono al primo commento completo alla Divina Commedia composto da Iacomo Della Lana prima del 1328, pochissimi anni dopo la morte del poeta. L’autore, nato a Bologna, seguì la famiglia che si trasferì a Venezia, forse per interessi commerciali. Secondo la più recente critica storica, fu qui che lacomo compose il suo commento, come testimonia la presenza di parecchie parole in lingua veneta. Ecco uno dei frammenti, che presenta il canto XXIII dell'Inferno:
"Taciti, soli, sança”. In questo capitolo itende l’autore doppo alchune poetiche parole et fabulose de tratar dela pena deli ypocriti liquali ello punisse nella sexta bolgia circa la qual intericione è da savere che si chomo dixe bacone ne la ex posicione deli uocabuli jpocrita siè a dire fictor è çoè". In questo capitolo l'autore, dopo alcune parole poetiche e fantastiche, intende trattare della pena degli ipocriti che egli punisce nella sesta bolgia nei riguardi della quale bisogna sapere che, come dice Bacone nella spiegazione dei vocaboli, ipocrita vuol dire falso, cioè...".



dalla stampa locale ("Vita del popolo" o "Gazzettino"?)
Nuove scoperte alla Biblioteca Capitolare
Eccezionali Capolavori in campo musicale
di Claudio Favaretto

Sempre più studiosi svolgono le loro ricerche nella Capitolare, prezioso scrigno in parte ancora da scoprire.
Il patrimonio musicale, grazie alla prudenza di mons. D’Alessi durante i bombardamenti e la distruzione della Seconda guerra mondiale, è vasto e prezioso.

Il tesoro custodito nella Capitolare è stato ancora una volta al centro di studi accurati.Dopo il recente lavoro di don Alessandro Bellezza che ha studiato il messale Vetus, un messale di inizio secolo XIV, che mette nuova luce sul legame tra la città di Treviso e il rito patriarchino (Alessandro Bellezza, Un messale votivo veneziano. Treviso, Biblioteca Capitolare della Cattedrale l.99(4)ff.1-65. Marcianum Press, 2022), nel mese di luglio si è laureata con il massimo del punteggio e la lode al Dipartimento di Musicologia e dei Beni Culturali dell’Università di Pavia (sede Cremona) Anna Martini, giovane musicologa trevigiana che ha esaminato due codici musicali presenti in biblioteca.
Si tratta dei codici I-TVc24a/b che testimoniano numerosi brani bicorali - e dunque con due cori spazialmente distanti tra loro e che creavano un grandioso e spettacolare effetto stereofonico, in uso presso la cappella trevigiana nel corso del XVI secolo. Più nel dettaglio, la studiosa ha curato l'edizione critica dei brani anonimi presti nei codici, proponendo la paternitá di alcuni di essi a grandi compositori del Cinquecento. Inoltre, ha ipotizzato la datazione di questi codici agli anni '30 del XVI secolo, aggiungendo dunque un tassello di conoscenza non solo sulla storia musicale, ma anche sulla storia della città di Treviso e sull'attività della Cappella musicale del Duomo.
Per molti trevigiani la- biblioteca Capitolare è un'illustre sconosciuta mentre, invece, custodisce capolavori eccezionali, specialmente nel campo musicale. Malgrado lo scempio subito dal terribile e mai abbastanza esecrato bombardamento del 7 aprile 1944 compiuto dagli aerei anglo-americani,. il patrimonio musicologico è ancora vasto e prezioso. Il salvataggio di una buona parte del tesoro musicale si deve alla prudenza di mons. D'Alessi, allora responsabile della biblioteca, che trasferì fuori città quanto poté, proteggendo così dalla distruzione certa testi di fondamentale importanza. Ne è un esempio l'Odehcaton (1501), la prima stampa musicale a caratteri mobili al mondo.
Nel Rinascimento la Cappella musicale del Duomo godette, infatti, di fama internazionale, annoverando tra i suoi direttori famosi musicisti come Francesco Santacroce, Niccolò Olivetto, e Giovanni Nasco.
Grazie agli studiosi che continuano a svolgere un appassionato lavoro di ricerca, le scoperte continuano anche ai giorni nostri . La già citata Anna Martini ha scovato l'importante Antifonario stampato da Petrus Liechtenstein a Venezia nel 1558, unico esemplare al mondo. Mentre il prof. Paolo Cagnin, assiduo frequentatore della Capitolare, ha trovato, nel fondo documentario, antiche carte musicali con notazione quadrata, che necessitano di uno studio approfondito per una migliore catalogazione. Per questo, la biblioteca Capitolare continua a rivelarsi come un prezioso scrigno, in parte ancora da scoprire.