Centro Studi e documentazione scout "don Ugo de Lucchi"
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approfondimenti
sul tema del servizio
Il servizio nel metodo scout

Alberto Fantuzzo, già presidente
nazionale dell’Agesci. Al periodo in cui era Responsabile regionale
dell’Agesci Veneto si deve l’accordo siglato con la Protezione
Civile regionale
Caro
Alberto dicci:
• nel periodo in cui sei stato responsabile regionale dell'Agesci
Veneto è stato siglato l'accordo tra l'AGESCI e la Protezione Civile
regionale. Quali sono state le motivazioni che hanno permesso questo
importante accordo?
• ora, nel nostro secolo, sarebbe possibile un servizio come quello
che l'ASCI svolse 50 anni fa', non considerando tanto le normative
relative alla sicurezza e all'organizzazione degli interventi,
quanto i cambiamenti che la società ha avuto in mezzo secolo?
♦ ♦ ♦ ♦ ♦ ♦
Sul prato di
Bracciano, il luogo delle decisioni importanti della nostra
Associazione, l’Agesci, in mezzo al grande prato e a fianco del
tendone dove si svolgono, una volta all’anno, le assemblee che
decidono in merito a regolamenti metodologici, politiche
associative, incarichi di servizio, sul punto più alto, proprio per
essere in vista per tutti coloro che vanno in quel prato a fare
attività, c’è un luogo particolare: un capitello con una lapide su
cui sono riportati i nomi di tutti gli scout morti durante
l’attività.
Oltre al simbolo della croce, su quel capitello c’è un solo altro
oggetto simbolo: è la carcassa di una piccola bicicletta da bambino,
di cui si intuisce che era una bicicletta, anche se rimane ben poco,
recuperata durante la tragedia del Vajont.
Come molti di voi, anch’io giravo lo sguardo a destra per osservare
la grande diga, ogni volta che, con la parrocchia o con gli scout,
passavo con il treno da Venezia diretto in Cadore e ricordo ancora
la prima volta che mio padre mi fece notare quella muraglia grigia,
difficile da vedere se non una volta giunti alla stazione di
Longarone. Da quella volta ed ogni volta, lo sguardo cerca e la
mente torna alle immagini ed il cuore sobbalza, pensando alla storia
ed alle persone. E ogni volta che passo da Longarone, ora più
facilmente in macchina che in treno, non posso non girarmi e
puntualmente chi è in macchina con me si sente ripetere: guarda la
diga!
I miei figli, che per anni hanno subìto questo che definirei un
rito, rispondono da anni prendendomi in giro per la mia scontata
ripetitività.
Quel 9 ottobre del 63 io avevo compiuto un anno e un giorno, sono
nato l’8 ottobre del 62, e non ho quindi ricordo diretto, né della
cronaca, né delle emozioni, ma il racconto dei miei genitori, dei
miei capi scout, e di tutti gli altri, via via fino alla bellissima
orazione civica di Paolini del 93, mi hanno portato a considerare
quell’episodio non semplicemente come una cronaca, ma come una
storia anche mia, per la quale interessarmi, leggere, documentarmi,
cercare di capire di più, di conoscere meglio, ….in qualche modo mi
hanno dato un’opportunità per compiere un percorso che non avevo
ancora fatto, per percorrere una strada fino ad allora sconosciuta,
insomma per imparare qualcosa di nuovo e di straordinario, in
definitiva per crescere.
Il primo punto che vorrei sottolineare oggi con voi è proprio
questo: fare memoria aiuta a crescere, contribuisce ad
educare.
Vedete, al giorno d’oggi troppo spesso viviamo come se non avessimo
memoria, come se non avessimo una storia, un “prima”, come se ogni
volta ci toccasse partire da zero, come se fossimo i primi ad
affrontare quella determinata difficoltà: nella vita, in famiglia,
al lavoro, anche in associazione….
E così facendo non ci rendiamo conto che per proiettarci verso il
futuro, occorre conoscere innanzitutto se stessi, conoscere la
propria storia, e dentro la storia di ciascuno imparare a
riconoscere le cose che valgono, le tappe che segnano, gli
insegnamenti che durano.
Un altro errore che facciamo spesso è quello di pensare che fare
memoria sia solo ricordare, magari anche riesumando foto in bianco e
nero o raccogliendo testimonianze dirette dai protagonisti di una
vicenda. Fare memoria è molto di più!
È riconoscere il proprio passato, quello personale e quello
collettivo, è comprendere il patrimonio che ci è dato in dote o
quello, come nel caso della tragedia del Vajont, che è andato
perduto per colpa di qualcuno. Anche imparare a riconoscere gli
errori ha un valore fondamentale ed è molto educativo.
Fare memoria è non solo leggere le storie delle persone e delle
popolazioni, ma è anche rendere vivo, presente, attuale ciò che ha
fatto crescere quelle persone, che ha fatto maturare quelle
popolazioni.
È una sorta di anticipo di resurrezione, in cui quello che conta di
più è il nostro impegno per continuare a vivere degnamente il
presente.
Anche l’Eucarestia è fare memoria, ma non è ricordo sterile
dell’Ultima Cena, bensì un rinnovato sacrificio per l’oggi e per il
futuro.
Grazie allora a chi oggi ha voluto fare memoria di quella tragedia,
per ricordare a tutti che da quella tragedia occorre ripartire ogni
volta e ricordare ancora una volta a tutti che la natura ha un suo
primato, che la montagna chiede rispetto, che l’ingegno umano ha
comunque dei limiti, che l’uomo non è onnipotente.
Facciamo allora memoria, cioè rendiamo vivo il ricordo, l’impegno,
la storia, di tutti coloro che hanno perso la propria vita, e di
tutti coloro che hanno donato il proprio tempo per gli altri, nel
corso delle numerose emergenze in cui anche noi scout siamo
intervenuti: le alluvioni del Polesine nel 1951 ed in Val di Susa
nel 1957, il disastro del Vajont nel 1963, le alluvioni a Firenze e
a Venezia nel 1966, il terremoto del Belice nel 1968, in Friuli nel
1976, in Irpinia nel 1980, la tragedia della Val di Stava nel 1985,
le operazioni di solidarietà internazionale negli anni 1991 – 1995
nella ex Jugoslavia e nei paesi dell’est Europa, … per citare solo
le più gravi e quindi le più conosciute.
Lo scautismo mi ha insegnato a fare memoria, ad esempio
imparando a fare delle serie verifiche, che significa mettersi in
discussione e riconoscere i propri e gli altrui errori, in modo che
anche questi facciano storia.
Da Presidente dell’Agesci ho imparato che esiste una memoria
associativa, così come esiste una memoria civica collettiva.
Una memoria che bisogna saper riconoscere soprattutto quando
capitano i problemi, per ricordare che ad esempio l’associazione, il
metodo educativo, la democrazia associativa, così come la natura, la
città, il bosco, la montagna, non sono nostri, li abbiamo trovati,
qualcuno li aveva pensati prima di noi, ad un certo punto ci sono
stati affidati come qualcosa di prezioso perché li custodissimo e li
tramandassimo alle generazioni future migliorati, valorizzati. Se
solo ci ricordassimo di questo …
Un’altra cosa che mi ha insegnato lo scautismo è la disponibilità
al servizio, che comincia semplicemente curando l’abitudine a
dire SI’.
Sì è sinonimo di positività, di disponibilità ad andare verso.
No è sinonimo di negatività, di ritrosia, di chiusura.
Uno scout è uno che se può dice di sì, che non tira fuori alibi. “Ho
tanto da studiare”, “Non ho tempo”, sono le due espressioni più
frequenti tra i giovani di oggi quando gli si chiede un piccolo
impegno non previsto. “Non sono capace, non sono all’altezza”,
oppure “Non c’è nessun altro oltre a me?” sono invece le scuse più
frequenti tra gli adulti.
Il tempo che manca è una balla! Il tempo è la cosa più democratica
che esista: ogni giorno ne viene donata a ciascuno la medesima
quantità, 24 ore a testa, poveri o ricchi, bianchi o neri, buoni o
cattivi. Il problema non sta nel tempo ma nelle scelte che facciamo.
E San Paolo negli Atti degli Apostoli, al capitolo 20, ci dà il
senso di questa inclinazione a dire SI’: “In ogni cosa vi ho
mostrato che bisogna venire in aiuto ai deboli lavorando così, e
ricordarsi delle parole del Signore Gesù, il quale disse egli
stesso: "Vi è più gioia nel dare che nel ricevere"» (Atti 20)”
Dire di SI’ aiuta a prepararsi al servizio, non solo a quello nelle
emergenze, ma al dono di sé tutti i giorni della vita. Sì è la
risposta dell’amore, dell’apertura, del dono.
Gli scout mi hanno anche insegnato a guardare con ottimismo alla
vita, a ciò che succede, a ciò che capita, anche se è grave e
difficile da sopportare.
Anche da una situazione disastrosa, come fu quella del Vajont,
possono nascere, e difatti sono autenticamente nate, l’abbiamo
sentito, storie grandi di generosità, di positività, non fosse altro
che per i volontari che hanno partecipato alle operazioni di
soccorso e di recupero delle vittime.
Non penso che sottolineare questo sia offendere chi ha perso la vita
o chi ha sofferto un lutto. Anzi credo che questo sia un modo
corretto per interpretare l’articolo della legge scout che dice:
sorridono e cantano anche nelle difficoltà.
Lo scautismo mi ha insegnato l’attenzione alle piccole cose,
la cura dei gesti semplici, delle carezze, degli sguardi,
l’attenzione ai dettagli, che dimostrano la capacità di prendersi
cura degli altri, come il buon samaritano si prende cura del
viandante picchiato e derubato dai briganti lungo la strada da
Gerusalemme a Gerico.
La vita all’aria aperta, le veglie preparate per bene, la capacità
di leggere una carta topografica, lo spirito di osservazione
allenato nel gioco di kim mi hanno insegnato l’attenzione per i
dettagli.
Quanto bisogno c’è di recuperare le attenzioni semplici ed i gesti
di ogni giorno per chi ha perso tutto in una alluvione o per un
terremoto? Quanto valore può avere anche un semplice bicchier
d’acqua per chi ha perso tutto?
Gli scout mi hanno insegnato a pensare agli altri, come e più che
non a me stesso. A volte mia moglie mi rimprovera perché dice
che penso troppo agli altri e quando ero presidente, in effetti
passavo più ore in giro per l’Italia per gli scout che non in
famiglia con i miei figli. Ma non era colpa mia. Me l’avevano
insegnato i miei capi, me l’aveva insegnato l’esperienza da capo
squadriglia, da giovane capo clan. Quando ero Akela del mio branco,
nei 5 anni che hanno preceduto la mia esperienza da Presidente,
scoprivo ogni volta di più come quella semplice formulazione fosse
così efficace ed avesse il valore autentico di una legge per tutti i
miei lupetti: il lupetto pensa agli altri come a se stesso!
Ma chi fa interventi in situazioni di emergenza che cosa fa se non
applicare la legge imparata da lupetto?
Lo scautismo mi ha insegnato l’attenzione alle persone e alle
relazioni.
Nella vita normale di tutti i giorni e anche nelle emergenze, anzi,
soprattutto nelle situazioni di difficoltà, la relazione tra le
persone è ciò che medica più di ogni buon cerotto, è ciò che salva
più di ogni miglior fasciatura.
La relazione è una condizione vitale, innata nell’uomo e nella
donna, eppure così trascurata, tanto che, almeno nella mia
esperienza, la maggior parte delle liti avviene per scarsa capacità
di stare in modo sano dentro ad una relazione.
Essere in relazione è innanzitutto non mettere etichette alle
persone, non giudicarle in base alle apparenze, al giornale che
leggono, all’abito che indossano. Troppo comodo! Destra – sinistra,
ricchi – poveri, belli – brutti, bianchi – neri, veneti – immigrati,
…. Non sono queste le categorie di pensiero e tantomeno di
comportamento che favoriscono l’integrazione e la convivenza.
Le persone hanno un valore in sé, per la storia che portano, per la
profondità che racchiudono. Le persone sono storie!
Ecco perché nelle tendopoli e nelle emergenze ci proponiamo
innanzitutto per la cura delle relazioni, non ci interessano i posti
di coordinamento e di comando, ci piace stare con le persone, con i
bambini, con gli anziani, con quelli che rischiano di rimanere
soli….
Lo scautismo mi ha insegnato anche la fatica e l’esposizione
della denuncia. Non possiamo rimanere in silenzio e basta di
fronte alle tragedie, davanti alle crisi, dinnanzi alle miserie.
Non possiamo voltare la testa dall’altra parte ed ignorare le cause
che determinano disuguaglianze sociali, disastri ambientali,
dissesti economici. Lo scautismo mi ha insegnato un metodo, quello
dell’esploratore, che ha voglia di addentrarsi nelle cose che non
conosce, per scoprire di più, per fare un’esperienza e formarmi un
pensiero autonomo e critico.
Ma lo scautismo mi ha anche insegnato che la denuncia non basta.
Noi non siamo quelli della protesta e del mugugno. Noi siamo anche
quelli della proposta, della ricostruzione, affermando i valori che
stanno alla base della convivenza felice dei popoli, delle razze,
delle religioni.
Perché coltiviamo una naturale attenzione alla vita che deve
continuare. E cerchiamo anche di trasmetterla a chi incontriamo e
assistiamo nelle emergenze.
Mi pare che queste siano le caratteristiche che contraddistinguono
lo stile e il ruolo degli scout che intervengono nelle emergenze e
di tutti i capi che lavorano per la prevenzioni.
Ho trovato una frase dalla manualistica classica che mi sembra
racchiudere il senso del nostro faticare in ambito educativo e
quando serve anche nelle difficoltà e nelle emergenze: ‘per ora
diciamo "omnia sunt communia" ovvero 'ogni cosa è bene comune'
(Thomas Muntzer) e su questo fondiamo la nostra azione politica di
cittadinanza attiva ... ma potremmo presto dover dire "In extrema
necessitate omnia sunt communia, id est communicanda" ovvero 'nella
necessità estrema tutte le cose sono comuni e perciò si devono
mettere in comune'.
Ho cominciato parlando di memoria e vorrei concludere tornando alle
memoria con una provocazione.
Girando l’Italia da Presidente ho conosciuto molti centri scout,
molte fondazioni, molti centri studi, giustamente preoccupati di
recuperare la memoria dello scautismo e del civismo degli scout,
limitandosi però a percorrere sentieri che andavano esclusivamente a
ritroso nel tempo.
Pensando invece al valore profondo della memoria ed alla capacità di
rendere vivo, attuale, presente ciò che è stato in ciò che potrebbe
accadere, dico che mi piacerebbe che tutte queste numerose realtà e
le persone preparate e motivate che li animano, una volta esaurita
la fase di raccolta delle foto in bianco e nero, autentica
specialità saldamente in mano agli ex scout, smettessero di
rovistare nei cassetti a cercare distintivi e manoscritti e
provassero proiettare la loro azione verso il futuro.
Perché un centro studi deve dedicarsi quasi esclusivamente al
passato? Perché non può valorizzare le numerose e ricche esperienze
dei suoi affiliati e i numerosi talenti dei suoi volontari esperti
aiutando tutti a fare memoria della storia, ma guardando al futuro?
Propongo che oltre a fare mostre fotografiche si finanzino borse di
studio per studi prospettici fatti da giovani universitari sui
moltissimi ambiti che riguardano l’educazione, la natura,
l’ambiente, la cittadinanza attiva, e che potrebbero aiutare anche i
capi in attività a svolgere meglio il loro servizio.
Concludo con una frase tratta da san Paolo apostolo nella sua
lettera ai Tessalonicesi: “non abbiamo mangiato gratuitamente il
pane di alcuno, ma abbiamo lavorato con fatica e travaglio giorno e
notte, per non essere di peso ad alcuno di voi”.
Grazie.
Alberto Fantuzzo |