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Lino, so che tuo fratello ha lavorato al Vajont, cosa ci puoi raccontare?
Lino, tu hai un racconto particolare sul parroco Mons. Bortolo Larese, che negli anni ’30 fondò lo scautismo a Longarone?
Hai qualche altro ricordo forte che porti ancora nel cuore della tua esperienza di sevizio? |
I luoghi denominati “Vajont” erano particolarmente conosciuti nella mia famiglia. Il paese, il lago e, soprattutto, la diga ricorrevano spesso nelle nostre conversazioni. Mio fratello Giovanni si era appena laureato in geologia con una tesi riguardante la tettonica delle zone adiacenti e il suo relatore, il professor Edoardo Semenza era il figlio dell’ingegnere progettista della grande diga. Ho seguito, quindi, la triste vicenda del crollo della montagna dentro il lago quasi in prima persona nei racconti di mio fratello. Aveva partecipato con il suo professore alle indagini sulla frana di Pontesei, che presentava molte analogie con il territorio di Vajont, e ai rilevamenti sul Monte Toc poco tempo prima del suo drammatico franare nel lago. Ricordo con precisione tutti i dubbi e le perplessità suscitate da quell’opera. La notizia della catastrofe mi parve, in quel giorno d’ottobre, come il verificarsi dell’ineluttabile.
Tra i corpi trasportati dal Piave e pervenuti a Cadola c’era anche quello di Don Bortolo Larese parroco di Longarone. Alcuni fedeli, riconosciutolo, sono ripartiti velocemente per ritornare subito dopo chiedendoci commossi un gesto di pietà. Desideravano che il loro parroco non rimanesse completamente spogliato alla vista delle molte persone attese per rendergli omaggio e ci consegnarono i paramenti sacri per rivestirlo. Raccontai questo episodio ad un anziano signore presentatomi da una comune amica il giorno in cui, presente il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, si celebrarono i quarant’anni dalla tragedia. L’anziano signore, sindaco di Longarone per un lungo periodo successivo al cataclisma, si commosse visibilmente al racconto perché poteva finalmente ringraziare chi aveva usato tanta delicatezza verso il suo carissimo zio don Bortolo.
Una visione domina costantemente i miei ricordi. In fondo al piazzale, sopra una piccola altura, un tavolaccio sostenuto da cavalletti accoglieva i poveri corpi nudi e carichi di fango. Da lontano aveva l’aspetto di un altare sacrificale. Con espressione di sconvolgente pietà uno dei nostri Rovers, Roberto, li lavava con una cannella d’acqua e con una spugna. Ho quell’immagine indelebilmente stampata nella memoria. La rivedo in continuazione quando, in visita a chiese o musei, mi appare, collocata sempre sopra una collina, la scena della crocifissione. E nei dipinti e nelle sculture della deposizione rivedo sempre Roberto nelle vesti e negli atteggiamenti di Nicodemo, dell’uomo pietoso e amorevole che dovrebbe vivere in ognuno di noi. Sono passati quasi cinquant’anni da allora e ogni volta il racconto si sofferma su questa visione, la mia coscienza si scuote ancora e mi commuovo come allora. |