Centro Studi e documentazione scout "don Ugo de Lucchi"

Intervista a Veniero Galvagni     

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che nel 1963 era un giovane studente di Medicina, e faceva l’Aiuto
Capo del Riparto Esploratori di Mel.

Veniero, tu eri a quel tempo aiuto Capo nel Riparto Esploratori di Mel, ed eri studente di Medicina a Padova. In quel primo scampolo di ottobre però non eri a Padova ma eri a casa a preparare un esame. Come e quando ti sei reso conto di quello che era successo a Longarone?

 

 

 

 

 

 

 

Dopo questa giornata così intensa e inaspettata cosa decidono di fare gli scouts di MEL?

 

 

Voi di Mel siete stati tra i primi ad arrivare al cimitero di Fortogna, cosa facevate e quanti giorni siete stati in servizio?

 

Alle ventitré e dieci sentii un rumore sordo e continuo che proveniva dalla direzione del Piave.  La mattina dopo, alle cinque, mia madre, agitatissima, entrò in camera mia senza bussare, mi svegliò e mi raccontò ciò che mio nonno aveva appreso dalla radio. le prime, terribili voci: Ghe né i morti sui alberi! (“Ci sono i morti sugli alberi!”).

La sera prima era passata l’onda di piena alta dieci metri che, per la violenza e la velocità dell’acqua, aveva completamente spogliato i corpi delle persone. Da Longarone, lungo una quarantina di chilometri di fiume, l’acqua aveva posato sui rami degli alberi, o incagliato negli anfratti delle rive, i cadaveri di decine e decine di persone… ed ora eccone lì tre…. a sette, otto metri di altezza.

La prima cosa che decidemmo di fare fu di arrampicarci sugli alberi e, con l’ausilio di corde, portare a terra quei corpi senza vita.

Poi, di ramo in ramo, su, su, fino a raggiungere il corpo, passare la corda attorno a un ramo robusto, imbragare il cadavere e lentamente calarlo fino alle braccia protese di Mario Carniel e di Angelo Lorenzet che lo stendevano a terra. Tre alberi diversi, tre morti diversi, due donne giovani e un anziano.

Non ricordo di aver provato paura, piuttosto una sensazione di totale impotenza di fronte a questa mostruosità.

 Successivamente, tra i cespugli, trovai il corpicino di un bambino di circa due anni. Ricordo che arrivò, proprio a quel punto, il medico condotto di Mel e della maggior parte delle frazioni di Mel, il dottor Gabriele De Battisti, che mi voleva bene come a un figlio, che mi disse di salire sulla sua Topolino verde. Salii sulla sua auto con il corpicino in braccio e lo portammo alla cella mortuaria.

Piansi e fui sommerso dalla sensazione di fragilità che avvertii nei confronti delle sventure che ci possono accadere. E sentii con precisione che la mia forza fisica-psichica-spirituale di allora, ed ora sento tutto ciò con sempre maggior precisione, mai ce l’avrebbe fatta a salvare me stesso o qualcun altro dalla morte, se la morte stessa non avesse deciso lei, di lasciar perdere per un po’…

Quando mi feci accompagnare a casa da qualcuno che non ricordo, era già molto buio, e i cadaveri, lì dentro, erano sicuramente più di dieci.

 

 

Decidemmo assieme di andare a Longarone “a dare una mano”. Ci caricò un camion di alpini che si strinsero per far posto a noi cinque fino a Fortogna, frazione di Longarone. Fu un’esperienza di incontro con la morte su larga scala, fatta di corpi, tantissimi corpi, in molti casi mutilati, pezzi di corpi e, quasi tutto, in via di putrefazione.

Solo a quel punto venimmo a conoscenza del fatto che la diga non era crollata e che le vittime non morirono per l’urto dell’acqua o per annegamento, ma per lo schiacciamento, il soffocamento dovuto all’aria che precedette quell’enorme quantità di acqua che fece crollare anche le case. E le case, crollando, seppellirono o uccisero gente già morta o quasi. E l’acqua, salendo e poi ridiscendendo, aveva lavato via tutto e trascinato tutto nel Piave.

 

 

All’inizio, appena eravamo arrivati (sessanta ore dopo la tragedia) di morti ce n’erano quattrocento e il secondo giorno che eravamo lì se ne contavano già più di ottocento! erano arrivati dei medici legali sloveni che, non appena noi arrivammo, saputo che ero uno studente di Medicina mi arruolarono all’istante, fornendomi dei guanti di gomma, un po’ di mascherine, e delle precise indicazioni su quello che avrei dovuto fare per tutto il tempo che fossi rimasto lì.
Il mio compito consisteva nel mettere i corpi dentro dei sacchi di plastica trasparente …. e gestire la situazione…con i familiari Lanfranco e gli altri erano impegnati a costruire bare e croci, in mezzo ad un odore che non si può immaginare, se non si è mai stati vicini a corpi umani in decomposizione.
Svolsi il mio compito ininterrottamente per tre giorni, con due notti in mezzo senza dormire, finché, sul finire del terzo giorno, caddi svenuto sul prato, a faccia in giù. Non ricordo chi mi riportò a casa dai miei, a Mel, e nemmeno Lanfranco se lo ricorda. Lui rimase lassù con gli altri ancora per tre giorni.