Centro Studi e documentazione scout "don Ugo de Lucchi"

Intervista a Bernardino Ragni     

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di Spoleto. Bernardino arrivò con Enrico e altri 17 Rover dall’Umbria, e la sua testimonianza – che abbiamo raccolto nel libro – è una delle più dettagliate, e forse anche la più cruda.

Dino - Quando sei partito per Longarone eri giovanissimo, hai avuto difficoltà con la famiglia?

 

Il servizio al cimitero di Fortogna era solo manuale o implicava altre attenzioni?

 

 

Che ricordi ti sono rimasti impressi della tragedia del Vajont?

 

 

 

 

 

 

La mia famiglia era molto combattuta. La robusta fede cattolica e una decisa inclinazione alla solidarietà e alla carità sostenevano le ragioni della partecipazione; la giovanissima età del figlio, nipote e fratello, la lontananza e le praticamente sconosciute ma tragiche condizioni sociali e ambientali dei luoghi dove si sarebbe trovato ad operare, incutevano profonde paura e preoccupazione. La mia determinazione non ammise alternative alla partenza. Mia madre corse da “Tommasino” negozio di stoffe e abbigliamento ed acquistò il primo capo specializzato della mia vita, una splendida, costosissima giacca a vento blu-notte “Lanerossi” alla quale era stato affidato il compito di proteggermi dal freddo e umido autunno alpino, e lo fece molto bene.

 

 

Più strazianti dei morti erano i vivi che li cercavano. Una madre disperata aveva riconosciuto l’amatissima figlia sulla foto esposta nella tenda del riconoscimento, singhiozzando senza tregua ci costrinse a scavare nel punto della fossa dove risultava sepolta la sua cassa, a nulla valsero i nostri tentativi di convincerla a desistere in quanto erano ormai passati diversi giorni e ciò che avrebbe visto sarebbe stato insopportabile. Riprovammo ancora prima di schiodare il coperchio del feretro ma fu inutile. Quando scostammo prima la plastica poi il lenzuolo non più bianco, il bellissimo volto che ci aveva stupiti giorni prima era ormai corrotto e inesorabilmente cancellato. Quella madre, sul ciglio della fossa tentò di gettarsi in quell’abisso supplicandoci di seppellirla con la figlia. Da altri di noi e dai suoi congiunti fu sollevata e allontanata, mentre ricomponevamo la fanciulla dai capelli d’oro nella sua ultima dimora.
 

 

Ricordo benissimo solo due scene, a loro modo simbolo della bassezza umana: una rotaia del treno che percorreva la valle del Piave parallelamente al fiume, strappata come un fuscello dal binario e scagliata contro un lampione che aveva resistito all’urto ed intorno al quale essa s’era avvolta come una grottesca, macabra cravatta, simbolo della criminalità politica, sociale, culturale che aveva generato l’immane disastro; nell’edificio scolastico adibito a magazzino un carabiniere in divisa, un addetto alla sorveglianza del regolare svolgimento dell’attività di conferimento e distribuzione dei beni a chi ne avesse necessità, che ho sorpreso nell’atto di trafugare sotto la cattedra dove era seduto un bellissimo cappotto di cammello da uomo, era il simbolo della cinica meschinità umana che riesce a sbocciare sul dolore e sul bisogno.
Nell’estate ’64 passeggiavo con mia sorella sulla spiaggia di Gabicce Mare, quando fui colpito da una scossa elettrica che mi attanagliò il cuore: una bambola rosa nuda semisommersa dalla sabbia sulla battigia mi afferrò la memoria scagliandola a Fortogna, sulla riva del Piave.