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Dino - Quando sei partito per Longarone eri giovanissimo, hai avuto difficoltà con la famiglia?
Il servizio al cimitero di Fortogna era solo manuale o implicava altre attenzioni?
Che ricordi ti sono rimasti impressi della tragedia del Vajont?
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La mia famiglia era molto combattuta. La robusta fede cattolica e una decisa inclinazione alla solidarietà e alla carità sostenevano le ragioni della partecipazione; la giovanissima età del figlio, nipote e fratello, la lontananza e le praticamente sconosciute ma tragiche condizioni sociali e ambientali dei luoghi dove si sarebbe trovato ad operare, incutevano profonde paura e preoccupazione. La mia determinazione non ammise alternative alla partenza. Mia madre corse da “Tommasino” negozio di stoffe e abbigliamento ed acquistò il primo capo specializzato della mia vita, una splendida, costosissima giacca a vento blu-notte “Lanerossi” alla quale era stato affidato il compito di proteggermi dal freddo e umido autunno alpino, e lo fece molto bene.
Più strazianti dei morti erano i vivi che li cercavano. Una madre
disperata aveva riconosciuto l’amatissima figlia sulla foto esposta
nella tenda del riconoscimento, singhiozzando senza tregua ci
costrinse a scavare nel punto della fossa dove risultava sepolta la
sua cassa, a nulla valsero i nostri tentativi di convincerla a
desistere in quanto erano ormai passati diversi giorni e ciò che
avrebbe visto sarebbe stato insopportabile. Riprovammo ancora prima
di schiodare il coperchio del feretro ma fu inutile. Quando
scostammo prima la plastica poi il lenzuolo non più bianco, il
bellissimo volto che ci aveva stupiti giorni prima era ormai
corrotto e inesorabilmente cancellato. Quella madre, sul ciglio
della fossa tentò di gettarsi in quell’abisso supplicandoci di
seppellirla con la figlia. Da altri di noi e dai suoi congiunti fu
sollevata e allontanata, mentre ricomponevamo la fanciulla dai
capelli d’oro nella sua ultima dimora.
Ricordo benissimo solo due scene, a loro modo simbolo della bassezza
umana: una rotaia del treno che percorreva la valle del Piave
parallelamente al fiume, strappata come un fuscello dal binario e
scagliata contro un lampione che aveva resistito all’urto ed intorno
al quale essa s’era avvolta come una grottesca, macabra cravatta,
simbolo della criminalità politica, sociale, culturale che aveva
generato l’immane disastro; nell’edificio scolastico adibito a
magazzino un carabiniere in divisa, un addetto alla sorveglianza del
regolare svolgimento dell’attività di conferimento e distribuzione
dei beni a chi ne avesse necessità, che ho sorpreso nell’atto di
trafugare sotto la cattedra dove era seduto un bellissimo cappotto
di cammello da uomo, era il simbolo della cinica meschinità umana
che riesce a sbocciare sul dolore e sul bisogno. |