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Gianni com’è stato il tuo inizio, cosa hai pensato? 
   
			  
			  
			  
			  
			
			
			
			  
			
			
			
			Intendi dire che il pensiero della morte non ti ha mollato? 
			
			  
			
			  
			
			  
			
			  
			
			  
			
			  
			
			  
			
			
			
			  
			
			
			
			Gianni e alla sera, quando ormai era buio, cosa facevate? 
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			Avevo compiuto da poco 17 anni e, prima di scendere nel greto del 
			Piave a Cadola, mi sentivo come eccitato dall’ignoto che mi 
			aspettava, avevo il sangue che ribolliva come di un’attesa per un 
			incontro che avrei rifiutato volentieri.  
			Scendere nel greto del Piave per cercare le vittime trasportate 
			dall’acqua del Vajont, era come entrare da una porta sapendo che 
			avrei incontrato la morte, la morte violenta, immeritata e 
			devastante.  
			Non conoscevo quella morte e cercavo di procrastinare il più 
			possibile quell’incontro che mi avrebbe sconvolto. Così è stato! 
			Nella mia esperienza di servizio scout avevo prestato la mia 
			disponibilità in istituti per ragazzi meno fortunati di noi, in 
			ricoveri per anziani perfino in un ospedale psichiatrico, alla festa 
			dell’ammalato a Madonna Granda, ma mai avrei immaginato di servire 
			la morte.  
			Le persone morte meritavano la loro decenza e dignità e, un po’ alla 
			volta, anche la morte era ormai diventata parte della mia vita, mi 
			era presente come mio impegno morale. 
			Questo pensiero mi ha sostenuto nei giorni successivi di servizio 
			non senza, però, esaurire i miei interrogativi. 
  
			
			  
			
			
			Purtroppo, in quei giorni, era un chiodo difficile da staccare. 
			L’esperienza delle veglie al cimitero di Cadola con il servizio per 
			i congiunti delle vittime, che arrivavano alla ricerca e 
			riconoscimento di parenti scomparsi, cominciava a cambiarmi l’angolo 
			visuale della morte. 
			Al cimitero si faceva un servizio all’amore in vita tra persone, ai 
			sentimenti, ai teneri affetti, al rispetto di quello che una donna e 
			un uomo sono stati in vita.  
			La situazione non era delle migliori, ma il dolore e le lacrime 
			erano vere espressioni vive di rapporti umani malauguratamente e 
			inesorabilmente tagliati, distrutti. 
			L’interrogativo era se lasciarci vincere dalla morte paralizzante o 
			se continuare ad accompagnare il movimento costante della vita, di 
			trovare la forza per camminare alla ricerca della verità e della 
			sincerità. 
			La porta che ho aperto all’inizio e mi ha fatto incontrare la morte 
			ora mi incuteva meno paura e mi suscitava una nuova forza e un nuovo 
			coraggio interiori.  
			Nella vita, infatti, ci sono momenti nei quali pensi di essere 
			sopraffatto dagli eventi più grandi di te e vorresti fuggirli, ma la 
			potenza educativa del servizio scout ti rende capace di affrontare 
			con mente consapevole e coerente le situazioni più gravi. 
  
			  
			
			Non era facile a fine giornata, dopo la fatica della ricerca e del 
			trasporto delle vittime, sedersi a tavola e mangiare con appetito, 
			non era facile la sera raccontarsi le vicende della giornata, troppo 
			sconvolti. L’eccitazione per questa situazione molto più grande di 
			noi ci aveva talmente afferrato che solo la pipa o le sigarette 
			lenivano parzialmente i nostri animi e ci permettevano di alternare, 
			inebetiti, alle volute di fumo, poche parole. 
			All’imbrunire si aggiungevano anche turni di servizio al cimitero, 
			durante i quali si accoglievano i parenti alla ricerca di un 
			familiare scomparso. La vigilanza al camposanto proseguiva anche 
			tutta la notte, circondati da bare occupate da corpi morti che 
			dovevamo aprire alla visione dei parenti per il riconoscimento. 
			La mia prima apertura delle bare non la auguro a nessuno tanto è 
			stato l’affanno che mi ha assalito essendo impreparato a quello che 
			avrei visto e in pochi secondi dovevo decidere, da solo, se far 
			vedere il contenuto di quella bara o meno. Ho rifiutato la visione 
			di alcune salme perché irriconoscibili. 
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