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18/10/2013 presentazione libro presso la Libreria Lovat di Villorba (TV):

L'invito

Prolusione del Prof. Francis Contessotto

Buona sera.
Decisamente non è facile parlare dopo le immagini che abbiamo visto della tragedia di cinquant’anni fa; è comunque doveroso parlarne, perché vicende come quelle del Vajont non possono passare dalla cronaca al dimenticatoio, ma devono diventare - purtroppo - la storia del nostro paese. Avete visto, alla fine del filmato, il disegno di alcuni scout che camminano, realizzato da Francesco Piazza; questa immagine in filigrana c’è in tutte le pagine del libro e, allo stesso modo, direi che c’è una filigrana che attraversa e fa da sfondo a tutto il libro, ed è questa vicenda dolorosa.
La vicenda del Vajont l’ho vissuta da bambino e quindi mi è rimasto qualche ricordo che mi porta a guardare verso la diga, che per fortuna ha resistito, ogni qualvolta passo per Longarone. Mi ricordo però che ancora prima del disastro, quando si passava per le vacanze con la “seicento” di famiglia, mio padre mi mostrava con orgoglio questa meraviglia. La diga era una delle grandi opere che si costruirono nel dopoguerra e che hanno dato un presente e un futuro al nostro paese. Adesso a riguardare quella diga c’è invece amarezza e dolore interiore. Ricordo che in quei giorni dell’ottobre del sessantatré siamo stati tutti colpiti, anche se con sensibilità diverse a seconda dell’età.
Questi sono i miei ricordi: ricordo che la professoressa di lettere allora ci ha fatto fare una ricerca sui giornali, raccogliere gli articoli dei giornali e le nostre impressioni, e noi abbiamo scritto poi la nostra ricerca con un bel po’ di retorica (era lo stile di quegli anni), la retorica del dolore, la retorica dello sgomento, eccetera. Poi ricordo che con una certa curiosità mio padre mi portò a vedere il Piave che a Ponte di Piave rasentava le arcate stesse. Ricordo il Piave molto limaccioso e minaccioso che trasportava di tutto: sporco, alberi, c’era un po’ di tutto; ho visto anche una carogna di animale. Ricordo che c’era un po’ di preoccupazione ma anche paura: ci si chiedeva cosa altro sarebbe potuto succedere.
Però mi accorgo che passando gli anni non passa il dolore, ma anzi con la consapevolezza di ciò che è successo aumenta una sofferenza interiore, meno istintiva ma più profonda. Penso che giustamente questo anniversario dei 50 anni è stato ricordato dalla televisione, perché questa data deve segnare la nostra storia come le bombe di Nagasaki ed Hiroshima segnano la storia dell’umanità, perché queste sono vicende che devono farci riflettere.
Questa tragica vicenda fa da filigrana a tutto quanto il libro, è un dolore che accompagna tutte le testimonianze, anche quando non si parla dell’acqua, della montagna che è scesa, del vento che ha spogliato i cadaveri; sì, perché non è stata solo l’acqua, ma anche il vortice d’aria causato dallo spostamento della massa d’acqua ad aver spostato, colpito e denudato le povere vittime.
Penso che l’ottobre del 1963 sia una data da ricordare perché segna la nostra storia, e anche perché credo che la tragedia del Vajont sia un po’ la metafora della vita e della storia, e che essa riassuma in sostanza la storia dell’uomo.
Da una parte vediamo che c’è l’errore colpevole dell’uomo, che per presunzione crede di essere padrone anche di quello di cui non può essere padrone, e allora riesce a fare cose di inaudita gravità con una leggerezza che non riusciamo a spiegarci: assistiamo a una sorta di delirio di onnipotenza per cui l’uomo pensa di poter fare tutto; e questo errore madornale l’ha portato in questo caso a sottovalutare quello che anche la gente semplice del posto sentiva: gli scricchiolii, i rumori, il brontolio della montagna.
Da un’altra parte, dopo la tragedia, c’è il risvolto positivo dell’umanità ed è la solidarietà umana che si è mossa non appena si è diffusa la notizia; si sono mossi gli aiuti, sia gli aiuti ufficiali dello Stato, dell’esercito e dei vigili del fuoco, ma anche gli aiuti spontanei dei volontari, tra cui quelli degli scout. E questo è sorprendente perché, senza che ci fosse una comunicazione di qualsiasi tipo, è stato come se un campanello avesse suonato in tutta Italia, e non solo; perché poi aiuti son arrivati anche dalla Francia e dalla ex Jugoslavia. Quindi, per fortuna, di fronte agli errori dell’umanità c’è anche la solidarietà dell’umanità.
Ma c’è anche un altro aspetto che lascia confusi e perplessi, perché nelle grandi tragedie si manifesta anche la miseria umana. Tra le varie testimonianze di cui il libro è ricchissimo ci sono esempi di sciacallaggio che devono farci riflettere, perché purtroppo anche questo è un aspetto della nostra umanità. Per questo nelle notti venivano accese le fotoelettriche, per evitare che persone andassero a rubare nelle case distrutte. Ma due sono gli episodi che mi hanno lasciato veramente allibito.
Racconta uno scout in una testimonianza che, essendosi messo a disposizione del comune, è stato ricevuto da un carabiniere che stava assegnando i compiti a coloro che si erano offerti per i vari servizi, e lo ha colto nel momento in cui stava nascondendo un cappotto di cammello probabilmente trafugato ad una vittima.
E l’altro episodio è questo: agli scout non sempre veniva fornita l’attrezzatura sufficiente e dovevano maneggiare bare e cadaveri con i guanti da cucina. Poiché i guanti si rompevano facilmente, hanno dovuto andarseli a procurare nei negozi di casalinghi, ed hanno potuto notare che in un solo giorno il loro prezzo era aumentato di moltissimo: c’è stato chi ha approfittato del fatto che i guanti andavano necessariamente venduti per aumentarne il prezzo.
C’è poi un altro episodio di altro genere, ma non per questo meno grave, di sciacallaggio: lo sciacallaggio mediatico. Un giornale in questa situazione ha voluto fare il pezzo di colore e ha ritratto gli scout come ragazzotti che semiubriachi cantavano in mezzo a questa tragedia. Questo ha offeso moltissimo la sensibilità degli scout, al punto che ancor ora più di qualcuno nelle testimonianze ricorda questo episodio e se ne sente ancora ferito.
Dunque l’errore umano, la solidarietà umana e la miseria umana; purtroppo la storia è fatta di tutto questo! Noi, se siamo saggi dovremmo prendere esempio dalla parte migliore, la solidarietà; sperando sempre che non ci sia più bisogno di grandi atti di solidarietà. Ma questo è quanto ci insegna la storia.
Il libro è estremamente interessante perché è ricchissimo di testimonianze dirette dalle quali si coglie molto di più che dal documentario, perché la testimonianza ci riporta anche la sensibilità di come un episodio o un evento viene vissuto, e quindi c’è il confronto diretto con i protagonisti.
Nel libro c’è anche un impressionante materiale documentario: fotografie, articoli di giornale, per cui chi è appassionato di storia trova moltissimo materiale. C’è la cronaca di quello che è capitato e ci sono anche alcune considerazioni sull’educazione e sul senso del servizio degli scout.
Io non sono stato scout (mi era venuta la tentazione di indossare qui il fazzolettone di mio figlio, ma sarebbe stato un falso!), ma mi permetto di fare due considerazioni:

- la prima è sul tipo di servizio degli scout: mi ha colpito l’assoluta disponibilità. Questi ragazzi avevano dai diciassette anni in su (anche se qualcuno aveva barato e i diciassette anni non li aveva ancora compiuti), e senza pensarci su sono partiti con una determinazione che ha lasciato allibiti a volte anche i loro genitori. Un papà ha tentato di opporsi, ma sapeva già in partenza che sarebbe stato inutile. Si sono trovati, si sono organizzati, si sono chiesti “che cosa facciamo?”e qualcuno è partito quasi il giorno stesso o la mattina dopo, qualcun altro è partito due giorni dopo per organizzare un po’ il materiale, qualcuno ha dovuto avvisare al lavoro perché già lavorava, qualcuno ha perso un esame perché studiava all’università. Comunque nelle testimonianze emerge l’assoluta disponibilità e gratuità; “gratuità” nel vero senso della parola, visto che si sono pagati il viaggio (e qualcuno,essendo senza i soldi necessari per acquistare il biglietto e sapendo che altri sarebbero stati nella sua stessa situazione, si è attivato andando a chiedere il biglietto ad un politico della zona in cui abitava). Questa assoluta disponibilità e gratuità ha suscitato in me una grande ammirazione, perché mi pare che oggi generalmente non si veda lo stesso slancio.
Inoltre mi ha colpito la grande umiltà con cui gli scout hanno svolto il loro servizio: alcuni non volevano nemmeno dire il loro nome ai giornalisti, non hanno voluto essere citati. In un’epoca in cui il protagonismo sembra sia il fondamento di qualsiasi cosa, perché se non si è protagonisti sembra di non essere nessuno, questo mi sembra un aspetto straordinario. Ma addirittura alcuni, forse anche perché troppo colpiti da ciò che hanno fatto e visto, non hanno neppure raccontato compiutamente ai loro genitori o ai loro amici cosa avevano fatto, per cui il loro servizio anche a distanza di anni è rimasto assolutamente anonimo;
- la seconda considerazione è sul tipo di servizio: questo è stato un tipo di servizio completo, perché gli scout si sono interessati all’emergenza mettendosi a completa disposizione. Nel libro, Gianni Tosello dice che hanno fatto un servizio “ai morti e ai vivi”, ed è vero! Vi confesso che faccio fatica a parlarne, perché le testimonianze a volte sono crude, ed una notte, dopo aver letto un po’ di pagine del libro, ho sognato fango e cadaveri.
Ragazzi di 16-20 anni si sono messi a disposizione per “fare il pettine” sul greto del Piave, cioè camminare a due metri di distanza l’uno dall’altro per rintracciare carogne di animali, cadaveri, a volte pezzi di cadavere che trovavano in mezzo al fango o sugli alberi, perché tale era stata la violenza dell’acqua. Li trovavano nudi, a volte già in fase di decomposizione e alcuni di loro avevano il compito di segnalarli, altri avevano il compito di raccoglierli, ricomporli, pulirli, disporli nelle bare, rinvenire segni di riconoscimento, rivestirli: un servizio completo e straordinariamente umano.
C’è stato contemporaneamente il servizio ai vivi: una volta ricomposti, i cadaveri venivano messi a disposizione dei parenti che cercavano i loro morti. E allora gli scout accoglievano i parenti, li accompagnavano, mostravano loro le fotografie; a volte venivano richiesti di riaprire le bare per vedere se c’era veramente il morto che il parente desiderava ritrovare. E’ un tipo di servizio paziente e difficile, che sembra andare oltre il semplice concetto di “umanità”. In alcune testimonianze mi ha colpito un altro aspetto, e cioè che gli scout riconoscevano in loro stessi uno stile di servizio che non riconoscevano in altri. Scrive infatti qualcuno: ”Noi non eravamo i militari, noi eravamo volontari; i militari erano costretti a farlo e qualche volta lo facevano malvolentieri, noi eravamo volontari e dovevamo farlo volentieri!”. Uno stile assolutamente diverso.
Anche nell’emergenza uno stile di servizio, il servizio ai morti e ai vivi!
C’è stato poi un altro servizio ai vivi: il servizio agli sfollati, quelli che erano costretti a vivere fuori dal loro paese. Parlo del servizio di assistenza nelle colonie, soprattutto a Claut e Cimolais, dove scout e scolte provvedevano a fare i letti, dar da mangiare, cucinare e anche ad animare le loro serate, perché queste persone non fossero troppo tristi.
Un altro servizio che qualcuno sottolinea, e che non è secondario nel mondo scout, è il servizio della preghiera. Nell’emergenza noi saremmo portati a vedere solamente i bisogni impellenti, la necessità di portare risorse umane e materiali; invece qualcuno ha portato come aiuto anche la preghiera per gli altri e per sé, per dare un senso a ciò che stava facendo.
Poi, come se tutto questo non fosse stato sufficiente, c’è stata la raccolta di fondi e la “buona azione” di Natale per dare qualcosa in più a chi era rimasto a Longarone.
Ecco questo mi pare un esempio di servizio completo: agire nell’emergenza e preoccuparsi e agire dopo l’emergenza!

Questo servizio è servito sicuramente a chi in quel momento ne aveva bisogno, ma è servito anche agli scout; ed è questo l’aspetto sorprendente della solidarietà! Mi hanno colpito infatti due pagine:
una in cui si dice che l’emergenza per gli scout è stata un’occasione per interrogarsi e trovare un nuovo senso al proprio operato. L’esperienza di Longarone è stato il momento in cui gli scout hanno capito che avevano un ruolo sociale importante; e da lì infatti è iniziata la collaborazione con il Ministero e con le altre associazioni di volontariato;
l’altra è un’osservazione di carattere educativo, che fa una scolta, che osserva come dall’emergenza ha imparato qualcosa per la sua vita di tutti i giorni, fuori dall’emergenza. Dice infatti:”..io sono qua in colonia che mi spacco la schiena per far da magiare, fare il letto, lavare estendere la roba, quando a casa mia non son capace nemmeno di tenere in ordine la mia camera. Dovrò proprio imparare, perché se sono riuscita a fare questo qui, devo riuscire a fare meglio nella mia vita a casa”.
Mi pare un’indicazione di tipo educativo molto importante.
Mi accorgo che il tempo passa e quindi mi avvio alla conclusione.
Scusate una deformazione professionale, ma non posso fare a meno di fare una lettura di tipo educativo di tutta questa vicenda. Noi che siamo divenuti adulti nel millennio scorso, siamo naturalmente portati a confrontarci col tempo presente vedendone spesso gli aspetti negativi, e purtroppo, qualche volta siamo presi dalla …”sindrome del professor Aristogitone” (personaggio della famosa trasmissione radiofonica “Alto gradimento” degli anni sessanta/settanta) che si divertiva a buttare fuori dalla porta un alunno qualsiasi, affermando che questi ragazzi sono tutti lazzaroni, tutti delinquenti e avanti di questo passo. Non voglio ridurmi a questo, però devo dire che osservo il modo di vivere odierno con qualche preoccupazione, pur senza dover dare la croce addosso ai ragazzi: essi sono figli di questa società. Però l’esperienza raccontata in questo libro penso che ci offra qualche insegnamento per l’oggi.
1. Ho detto che mi è piaciuto il senso di nascondimento e dell’umiltà di molti scout, quando oggi i mezzi di comunicazione dicono che i giovani sono portati al narcisismo, al voler mettersi in mostra. Non serve che nomini certi spettacoli televisivi, e spesso vediamo che l’unica molla per far fare qualcosa ai ragazzi sembra sia quella del protagonismo.
2. La seconda considerazione è un po’ più articolata: ho l’impressione che noi adulti pensiamo che l’educazione dei giovani sia la ricerca del benessere e non sia invece la ricerca del bene. La ricerca del bene è la ricerca della crescita equilibrata della persona che può passare a volte anche attraverso fatiche, sofferenze. Oggi sembra che vogliamo educare allontanando la fatica, le sofferenze,arrivando perfino ad allontanare l’impegno e la responsabilità.
La responsabilità e l’impegno costano e a volte possono far soffrire. E quando, pur con buone intenzioni, vogliamo togliere questa fatica, otteniamo che i ragazzi non sanno più impegnarsi: vivono alla giornata e non sanno dare un senso più alto a quello che fanno. Ma non è la colpa dei ragazzi: la colpa è di noi adulti che li educhiamo in questo modo.
Porto un esempio. Nel mondo della scuola ci sono momenti piacevoli e spiacevoli.
Uno dei momenti più spiacevoli per me è quando devo comunicare ai genitori che c’è la possibilità anche della bocciatura del figlio. Cerco di portare il discorso sui motivi che potrebbero portare alla bocciatura. Il più delle volte non c’è una vera e propria ribellione, ma sempre (o quasi) viene presentata l’obiezione “Ma mio figlio ci starebbe male”. Lo so bene che ci starebbe male, ma qui non voglio ragionare sul fatto se starebbe male o no, ma se gli farebbe bene o meno, se sarebbe utile o no dal punto di vista dell’apprendimento ed educativo.
Purtroppo ci facciamo prendere da un vago senso di psicologismo che pervade tutto, per cui portiamo tutto sul piano dello stare o sentirsi bene, e non su ciò che è bene. Io penso che questa sia una deriva educativa su cui noi adulti dobbiamo riflettere.
3. Un’altra deriva educativa è l’enfatizzazione del diritto. Non voglio dire che si stava bene quando si stava peggio. Sono nato dopo la guerra, sono cresciuto in un paese di campagna e so in quale poca considerazione venivano tenuti i bambini e le donne. Le donne per esempio non mangiavano a tavola ma sedute sui gradini della scala con il piatto in mano: questa è la grande considerazione in cui veniva tenuta la donna! Quindi non voglio dire che si stava meglio allora. La nostra società ha fatto grandissimi progressi nel campo dei diritti.
Però non tutto può essere diritto. Anzi pare che adesso il capriccio ed i desideri siano diventati diritto e si perde di vista il vero senso delle cose.
Permette un aneddoto: io insegno italiano, e approfitto, qualche volta, della mia materia per fare riflessioni di carattere esistenziale, coi ragazzi, soprattutto con i più grandi.
IV liceo, Dante, Purgatorio. (Quanto è difficile insegnare Dante oggi!). Sulla “spiaggetta” del Purgatorio c’è Catone che fa da guardiano, e Dante dice che il volto di Catone era illuminato da quattro stelle, così luminose che sembrava che il suo volto fosse illuminato dal sole. Il numero e la luminosità delle quattro stelle hanno un valore allegorico, significano qualche cosa di più di quanto viene detto; infatti le stelle rappresentano le quattro virtù cardinali.
Le virtù cardinali sono le quattro virtù che rendono l’uomo tale. L’uomo è uomo perché è virtuoso a prescindere dalla fede religiosa (Catone infatti non era cristiano). L’uomo è tale se possiede le quattro virtù cardinali: prudenza, temperanza, giustizia, fortezza.
Cerco quindi di analizzare con i ragazzi queste virtù. Ci sarebbero libri da scrivere con tutto quello che viene fuori dai ragazzi. Quello che salta maggiormente in evidenza è quando si parla della giustizia, dai giudici comunisti o dai giudici non comunisti, la giustizia viene vista quasi esclusivamente come rispetto della legge. La giustizia è invece riconoscere ad ogni uomo i propri diritti, perché se non vengono riconosciuti diritti e dignità dell’uomo non esiste la giustizia.
Allora dico che è impensabile che una minoranza dell’umanità, quella occidentale, abbia la maggioranza della ricchezza del mondo! Questa è giustizia?
In classe qualcuno alza la mano: “Ma noi ce la siamo guadagnata”. Mi sono trattenuto a fatica. Ma poi ho pensato che quel ragazzo non ha colpa, se dice così è perché noi lo abbiamo educato in questa maniera.
Quel ragazzo pensa di avere il diritto a vivere bene perché lui se lo è guadagnato;e allora altri che lavorano dall’infanzia, per il solo fatto che sono nati in un’altra parte del mondo, muoiono bambini, non hanno medicine per curarsi, non si sono guadagnati niente?
Mi pare che gli scout, in quell’occasione, ci possano insegnare qualche cosa in questo senso. Non hanno di certo pensato in quel momento ai loro diritti, ma a quello che hanno sentito come un dovere. Se avessero pensato al loro diritto, be’ era un loro diritto starsene a casa. Nessuno diceva che avevano il dovere di andare in mezzo al fango a recuperare le vittime.
Ma sono andati oltre. Non hanno enfatizzato il diritto. Hanno sentito che in quanto uomini avevano il dovere della solidarietà.
4. Un’altra deriva educativa che constato è quella che io chiamo delle “vite infinite”, come se la vita fosse un videogioco. Nei videogiochi si perde la vita ma la si può recuperare; sono morto ma se “cracco” il gioco ho vite infinite per cui continuo a giocare finché voglio.
I ragazzi vivono la vita come se ci fosse sempre un’altra occasione, e in questo contesto vediamo come sia difficile dare il senso di responsabilità. Per esempio perché studiare oggi se poi c’è ancora tempo? Ho preso un brutto voto, ma tanto recupero dopo. E così si arriva a maggio che qualcuno deve ancora iniziare a recuperare perché …tanto, c’è ancora tempo.
E allora in quei colloqui, di cui ho parlato prima, anche qualche genitore viene a chiedere”professore lo interroghi un’altra volta”. Si sta perdendo il senso del fatto che la vita è inserita nel tempo e che per ogni cosa c’è il suo tempo.
In questa occasione gli scout non hanno aspettato la seconda chiamata.
Sono partiti alla prima chiamata perché hanno sentito che questo era il tempo di agire; quindi non hanno rinviato a domani, ma si sono sentiti interpellati immediatamente.
Finisco con una riflessione sul titolo del libro:“Preparati a servire”.Il senso di questo titolo è dato dalla testimonianza di uno scout (che si legge a pag 125): “Quello che abbiamo fatto ci pare inverosimile, ma è da lupetti e poi da scout che ci siamo preparati ogni giorno proprio per essere capaci di affrontare con serenità la prova giunta così improvvisa. Dimostrare così a se stessi ed agli altri che i rover sanno servire.”
Allora, vedete, l’educazione è un percorso;in educazione non c’è la chiamata o la folgorazione sulla via di Damasco. E il compito degli adulti è quello di educare gradualmente, di preparare alla vita, che può voler dire anche preparare a servire.
Se gli scout non fossero stati preparati moralmente ed anche fisicamente avrebbero potuto fare tutto quel lavoro? Probabilmente no.
L’importanza del mondo scout, al di là degli interventi straordinari, è proprio quella di essere una scuola di vita in cui ci si prepara gradualmente a servire.
Per cui mi è piaciuto lo slogan del convegno di Longarone del maggio scorso che è “Preparàti a servire” ma che si può anche leggere “Prepàrati a servire”; titolo che trovo molto appropriato per la società di oggi.

Francis Contessotto