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Dal sito di Verniero
Galvagni:
Vajont. Io c'ero
di Miten Veniero Galvagni
Su La Repubblica di domenica 22
settembre, Marco Paolini ricorda quanto grande sia la dimenticanza
diffusa, tra la gente e a livello politico, della tragedia del
Vajont. Si tratta -sostiene Paolini - di ricordare, al fine di non
dimenticare, tesi che anch'io da tempo sostengo, al fine di non
commettere, in futuro, gli stessi errori giudiziari e trascuratezze
imperdonabili dalle vittime della tragedia. E, giustamente, Paolini
smaschera anche la stupidità inattesa di Giorgio Bocca e di Dino
Buzzati, all'indomani della tragedia.
Sullo stesso numero de La Repubblica, Paolo Rumiz sottolinea le
analogie processuali con il terremoto de L'Aquila, riportando
episodi da lui vissuti con superstiti e con un parente del
costruttore della diga del Vajont. Con i primi, episodi commoventi.
Con il secondo, uno scambio di opinioni da fucilazione immediata sul
campo.
Quest'ultimo week end, a Longarone, c'è stata una commemorazione
della tragedia. Per motivi di salute, io non sono potuto andare. Ma
ho telefonato a qualcuno dei "miei" dell'epoca che ci sono stati.
Ebbene, nemmeno una parola sulle ingiustizie patite dalle vittime!
Ma ora è il momento di raccontare.
Nelle ultime
settimane, mentre sto rivivendo ciò che ricordo della tragedia del
Vajont, ho dei contatti telefonici con diversi amici d'un tempo,
persi per tanti anni d'occhio e d'orecchio e ora ritrovati. Qualcuno
di loro l'ho anche rivisto recentemente.
Parlare con loro di quanto ricordo e confrontarlo con quanto loro si
ricordano di quei giorni, mi sta servendo molto per rimaneggiare il
racconto di molti avvenimenti che, da solo, non riuscirei a rivivere
con una sufficiente precisione descrittiva, confondendo troppo
facilmente la storia con la fantasia.
Desidero, dunque, scrivere qualcosa che ha più a che fare con la
cronaca che con la letteratura. Anche se, lo ammetto, sono spesso
tentato da considerazioni filosofiche, parafilosofiche e
psicologiche che con la cronaca non hanno niente a che fare, ma che
scelgo di assecondare, per un antico vizio. Esattamente come scelgo
di assecondare una cronaca “a ritroso”, o “rimbalzando” avanti e
indietro nel tempo, nei passaggi in cui mi vengono in mente
particolari da decenni dimenticati e che raccontano sia di me che
della mia famiglia di origine, che di alcuni personaggi e situazioni
da cui sono stato circondato e in cui sono stato immerso per
tantissimi anni.
Come potrei, infatti ,parlare di Mel, pur mantenendo come centrale
la cronaca di ciò che abbiamo vissuto nei giorni della tragedia del
Vajont, tralasciando il mondo che mi ha visto nascere e passare gli
anni più sereni della mia vita?
Scriverne e confrontarmi con questi amici, mi serve per liberarmi di
memorie deformate, senza ritraumatizzarmi (o, almeno, a me così
pare) e spero che qualcuno che non sa niente, o quasi, del Vajont,
leggendo queste parole, provi il desiderio di leggerne altre
sull'argomento e possa avvalersene per una sua personale memoria
storica di cui, ovviamente, poi può fare ciò che vuole.
Desidero ringraziare per questo confronto, in modo particolare,
Lanfranco Da Canal, Gioacchino Lot, Ernesto Perera, Mario De Cal,
Rino Dolce, Maurizio Ambria, Stefano Sto, Flavio Dal Piva, Francesco
Piero Franchi (Franz) e Rosetta Girotto. Il ringraziamento che
desidero rivolgere a tutti loro nasce nel mio cuore da motivi molto
diversi e anche diverse sono state le modalità di confronto con
ognuno. Un grazie particolare all'impegno degli scout di Mel e di
Treviso, nel darmi modo di riallacciarmi con maggior pregnanza a
quei giorni di 50 anni fa.
Sera del 9 Ottobre 1963. La sera del Vajont. Ho diciannove anni
compiuti a gennaio. Abito nella casa dei miei nonni materni a Mel,
in una casa su la contràda, o stréta (via Roma), principale strada
d'ingresso nella piazza Umberto I (ora piazza Papa Luciani) la
piazza principale del paese, e anche l'unica con la fisionomia di
una vera piazza.
Mel è un paese di ottocento abitanti, steso su di una collina, nella
Valbelùna, sulla sinistra Piave. È un capoluogo di comune con
ventidue frazioni, per un totale di diecimila abitanti, in Provincia
di Belluno, a metà strada tra Belluno e Feltre, 17 chilometri da una
parte e 17 dall'altra. Paese contadino, artigiano e impiegatizio ma
con una grande quantità di emigranti, soprattutto verso Milano,
Svizzera, Francia, Argentina, Germania ancora “al di qua” del muro.
E poi in Belgio... sì, Belgio, in miniera. Nella tragedia di
Marcinelle, di Mel e dintorni ne rimasero sepolti tre.
Il dialetto che vi si parla differisce leggermente da quello parlato
sia a Belluno sia a Feltre visto che, come quasi tutti i dialetti
italiani, non è espressione solo dei territori delle province, ma è
infarcito di sfumature di pronuncia e anche di parole, che rimandano
ai dialetti parlati nelle diocesi di pertinenza. Ebbene, la diocesi
di Vittorio Veneto, in Provincia di Treviso, si insinua dentro la
provincia di Belluno in tre Comuni: Lentiai, Mel e Trichiana. Così,
a Mel, si parlava e si parla tuttora, con un'intonazione che ricorda
a tratti il trevigiano.
A tutto ciò, poi, si aggiunge la questione delle etnie, come ben
sottolineato da Francesco Piero Franchi, nell'Introduzione al suo
volume Belluno. Antologia dei grandi scrittori, quando, parlando del
Veneto, scrive: “Una regione? No, in realtà sette province. Sette
Province? No, in realtà quasi seicento Comuni. Seicento Comuni? No,
in realtà un pulviscolo di frazioni caratterizzate da una propria
specifica identità...”. Partendo dai paleoveneti e passando per
tutte le etnie di cui, a Mel, esistono reperti archeologici
attendibili, per arrivare fino all'attuale società globalizzata, si
capisce bene come, paeselli distanti fra loro a un tiro di schioppo,
possano parlare idiomi almeno un pochino tra loro diversi.
Ma questa appartenenza alla diocesi di Vittorio Veneto non impedisce
agli abitanti di Mel (Zumellesi, dalla voce Zumelle, gemelli, nome
che nasce dallo stemma di un castello, dove erano nati due gemelli
ai castellani del VI Sec. d.C.) di sentirsi estranei alla “Marca
Trevigiana”, considerata una semplice appendice della Serenissima
Repubblica di San Marco, da molti secoli vissuta con un certo astio
dai bellunesi non benestanti economicamente, sia per le razzie di
pini e abeti che venivano usati per le navi del Doge (che,
viceversa, con i benestanti locali andava d'accordissimo) sia per
l'attitudine all' altezzosa aristocrazia dei nobili veneziani , e
anche dei ricchi mercanti che si avventuravano nelle valli del
feltrino e del bellunese, dello zoldano, dell'alpago, dell'agordino
e poi su, su, fino al Cadore.
Questa sera sono molto impegnato a studiare per l’esame di Biologia
Umana, che ho programmato di sostenere al secondo appello della
sessione autunnale d’esami. È l’ultimo esame che mi resta di quelli
previsti per il primo anno della Facoltà di Medicina e Chirurgia,
che sto frequentando all’Università di Padova.
Alle ventitré e dieci sento un rumore sordo e continuo che proviene
dalla direzione del Piave. Al momento non sono colpito
particolarmente da quel rumore, perché lo scambio per il rombo che i
carri armati, provenienti dal Friuli, fanno durante le loro
periodiche esercitazioni sul greto del fiume e, nella nostra zona,
siamo abituati a conviverci. Un rombo lontano che dura circa dieci
minuti, quindi, senza particolari preoccupazioni, guardo l’ora,
spengo la luce e pian piano scivolo nel sonno.
Ho l’abitudine di studiare disteso a letto, appoggiato sul gomito
destro, il libro sul materasso, la testa reclinata sulla spalla
destra ed, essendo ambidestro, con una biro tricolore, nero,rosso e
blu, tra le dita della mano sinistra. Abitudine che, soprattutto la
sera e la notte, avrei mantenuto scioccamente per almeno altri
cinquant'anni, scioccamente, lo ripeto, anche se ora uso
l'evidenziatore giallo, dato che si tratta di una posizione molto
nociva alla colonna vertebrale. Però, in quella posizione, quando si
è proprio stanchi di leggere o studiare, basta posare il libro per
terra, a fianco del letto, spegnere la luce, stendersi con la testa
sul cuscino e aspettare che il sonno arrivi. Non c'è da aspettare
tanto. A diciannove anni e praticando molto sport, il sonno arriva
senza bisogno di camomilla o psicofarmaci.
La
mattina dopo, alle cinque, mia madre, agitatissima, entra in camera
mia senza bussare, mi sveglia e mi racconta tutto d'un fiato ciò che
mio nonno ha appena appreso dalla radio, allertando subito sia lei
sia mia nonna (dormiamo tutti in camere separate, e mio padre, in
questo periodo, lavora a Venezia, facendo il pendolare nei fine
settimana): Longarone è stata spazzata via, e la prima versione dei
fatti individua la causa nel crollo della diga del Vajont.
Sono un capo Scout, vice capo reparto del Gruppo Mel 1, appartenente
all’Associazione Scout Cattolici Italiani, A.S.C.I., quando ancora
non era diventata A.G.E.S.C.I., fondendosi così con le Guide, le
Girls Scout, cosa impensabile in Italia, nel 1963. Uno dei nostri
motti è l’evangelico Estote parati (Siate pronti, preparati) che io
decido di prendere alla lettera.
Decido anche, almeno per quel giorno, di lasciar perdere con l’esame
di Biologia. Mi lavo e mi vesto in fretta e subito mi fiondo al bar
“da Bonesso” dove, come sono solito fare da qualche mese per essere
come i vèci (termine usato in tutto il Veneto per indicare anche i
giovani adulti, amici di fatto o anche solo potenziali, non solo gli
anziani), mi ingollo un bicchiere di grappa, non un semplice
bicchierino e, per svegliarmi un po', mi accendo anche un “toscano”,
un sigaro corto, malformato, molto puzzolente, contenuto in una
scatolina rossa. Solitamente, questo cerimoniale, lo celebro dopo
essere stato a “Messa prima” (cioè alle sei e mezzo di mattina) e
poi, traballante, ma solo per un quarto d'ora, me ne torno a casa,
distante solo un centinaio di metri, per poi studiare dodici ore di
fila, saltando sia la prima colazione sia il pranzo. Mia nonna e mia
madre brontolano per questo mio strano comportamento ma mio nonno,
che è poi il padrone di casa (“al paròn”, anche se lui è convinto
che sia mia nonna “la paròna”) mi lascia fare: ha ben compreso che é
giunta l'ora che io cominci a farmi i fatti miei anche se,
ovviamente, sempre sotto la sua supervisione.
È lì, da Bonesso, che arrivano le prime, terribili voci: “Ghe né i
morti sui alberi!” “Andove?” “Dò, sui alberi visìn a la Piave, dò
par Cornelio”.
In un attimo mi ritrovo in cima alla piazza, con Mario Carnièl e
Angelo figlio di Pino Lorenzét, il mitico fabbro del paese, detto
Angelìn de Pino, che già sono scesi al Piave e sono tornati su per
prendere una scala e delle corde. Scendiamo per il sentiero “di
Cornelio” assieme. Laggiù ci sono altre due o tre persone che non
ricordo, una di loro sta vomitando.
La sera prima era passata l’onda di piena alta dieci metri che, per
la violenza e la velocità dell’acqua, aveva completamente spogliato
i corpi delle persone, come sempre fa l’acqua dei fiumi quando sono
impetuosi e impietosi. Se ci cadi dentro, o ti travolge, o ti
risucchia, ti spoglia tutto intero nel tratto di cento metri,
risparmiando solo le panciere ben strette e, generalmente, i
reggiseno delle donne.
Da
Longarone, lungo una quarantina di chilometri di fiume, l’acqua ha
posato sui rami degli alberi, o incagliato negli anfratti delle
rive, i cadaveri di decine e decine di persone… e ora eccone lì tre…
a sette, otto metri di altezza.
Il cielo è plumbeo, data l’ora e il vapore che sta salendo come
nebbia da tutto quel bagnato intorno. Ben presto, però, appare il
sole, che picchia duro e ben stranamente, per essere d’ottobre. Il
clima è torrido e di lì in avanti ci accompagna almeno per una
settimana.
All’inizio la scena mi appare come il quadro di un pittore
fiammingo, ma ora non la ricordo più così. Con il passar delle ore,
infatti, la rappresentazione cambia, e quando, otto anni dopo, vedo
per la prima volta il film di Mario Monicelli Brancaleone alle
crociate, con la sequenza dell’albero degli impiccati, ecco, la
scena è quella.
La prima cosa che decidiamo di fare è di arrampicarci sugli alberi
e, con l’ausilio di corde, portare a terra quei corpi senza vita.
Mario Carniel e Angelo Lorenzet, il primo basso di statura e largo
di muscoli, il secondo alto di statura e tutto nervi e muscoli
scolpiti senza bisogno di body building, appoggiano saldamente la
scala all’albero e la tengono ben ferma mentre io ci salgo sopra per
arrivare ai primi rami. Poi, di ramo in ramo, su, su, fino a
raggiungere il corpo, passo la corda attorno a un ramo robusto,
imbrago il cadavere e lentamente lo calo fino alle braccia protese
di Mario e di Angelo che lo stendono a terra. Tre alberi diversi,
tre morti diversi, due donne giovani e un anziano.
Qualcuno, ad un certo punto, arriva con un camioncino, e carichiamo
i tre corpi che, su ordine del medico condotto, devono essere
portati nella cella mortuaria del cimitero di Mel, vicino a Marcador.
Non
sto provando paura, piuttosto una sensazione di totale impotenza di
fronte a questa mostruosità che, diversi anni dopo, avrei definito
“forza panica della natura”. Poco dopo, tra i cespugli, trovo il
corpicino di un bambino di circa due anni. Proprio a quel punto,
arriva il medico condotto di Mel, il dottor Gabriele De Battisti,
che mi vuole bene come a un figlio e mi invita a salire sulla sua
Topolino verde. Salgo sulla sua auto con il corpicino in braccio e
lo portiamo alla cella mortuaria.
Piango e sono sopraffatto dalla sensazione di fragilità che avverto
nei confronti delle sventure che ci possono accadere. Sento con
precisione, forse per la prima volta, che la mia forza
fisica-psichica-spirituale mai ce l’avrebbe fatta a salvare me
stesso o qualcun altro dalla morte. La morte decide lei, per prima,
se lasciar perdere per un po’…
Nella cella mortuaria (è già passato mezzogiorno da un bel pezzo) il
dottor De Battisti, aiutato dal dottor Mariano Mambrini, medico
condotto dentista e ciclista a Villa di Villa, la frazione più
grande e popolosa del Comune di Mel, sta redigendo una sommaria
descrizione dei corpi che arrivano di continuo, con finalità
medico-legali atte a una futura, possibile, identificazione.
A un certo punto mi fa accompagnare a casa da qualcuno che non
ricordo, è già molto buio e i cadaveri, lì dentro, sicuramente sono
più di dieci. Fuori, presumo per fare la guardia di notte, due
carabinieri che non ho mai visto girare per Mel.
Una volta a casa, mio nonno si limita a guardarmi e mentre mia nonna
mi prepara qualcosa da mangiare, intima perentoriamente sia a lei
sia a mia madre, di non farmi delle domande. A me dice solo: “Co te
à finì de magnàr, va a dormìr!”. Benedetto nonno Azio (Ignazio
Chiarelli, grande mutilato della Prima Guerra Mondiale) tu sì che ci
sai fare con il disturbo acuto da stress post traumatico!
Non sappiamo ancora con esattezza che cosa sia successo, si
accavallano notizie contraddittorie, durante il giorno ne ho sentite
di tutti i colori, ma non mi va assolutamente di chiedere qualche
aggiornamento a mia madre, a mia nonna, né tanto meno a mio nonno,
che ha una faccia da far paura. Lui, dopo avermi detto quella frase
lapidaria, salvifica e perentoria, va in camera sua ad ascoltare la
sua radio, perché di quella che c'è in cucina non si fida.
Così, credo senza salutare, me ne vado a dormire con qualche
flash-back, ma dormo lo stesso come un sasso, senza incubi.
Qualche giorno dopo, su Il Gazzettino, viene pubblicato un articolo,
scritto dal medico condotto, nel quale si racconta di me col
cadaverino in braccio, quando poi ben altro impegno mi sta
attendendo nei giorni successivi. Quell’articolo lo avrei letto solo
a distanza di anni, dietro insistenza di mio padre, e non provo, nel
leggerlo, emozioni particolari. È come leggere qualcosa che riguarda
qualcuno che non conosco.
A Longarone abitano diversi studenti delle superiori, per lo più
dell’Istituto tecnico industriale, che conosco bene per alcuni
allenamenti e gare di atletica leggera. Frequentando il liceo
classico (noto per la subalternità delle attività sportive, non
gradite a quasi tutti gli studenti che lo frequentano, bravissimi,
viceversa, nelle materie più “cerebrali”), mi ritrovo a praticare
con assiduità discipline atletiche e con un discreto successo (getto
del peso, lancio del disco e salto in lungo).
Ma a Longarone ci abita, soprattutto, una mia compagna di Liceo di
cui ho pochissime notizie, dall'esame di maturità, se non che si è
iscritta a Padova, alla facoltà di Lettere e Filosofia, di nome
Donatella.
La incontro una sola volta sul treno Calalzo-Padova, qualche mese
prima di quell'ottobre tremendo, lei salita a Longarone e io a
Feltre, ma nemmeno questa volta riesco a dirle che mi piace e tanto.
Sono
infatti ancora posseduto dalla convinzione che un'altra ragazza,
Rosetta, una classe dietro a me, che mi piaceva ancor più di lei e
appena prima di lei, non mi volesse concedere i suoi favori per la
mia bruttezza e per la mia balbuzie.
Così un mio compagno di classe, che spero di rincontrare al più
presto, arrivato a Belluno da poco tempo perché figlio di un
funzionario statale che doveva cambiare sede di lavoro per ordini
superiori da un momento all'altro, un ragazzo dal “sapor
mediorientale”, dopo avermi chiesto, senza tante storie, se io ci
tenevo così tanto a Rosetta, cosa che tutti, o quasi, nel mio liceo
sapevano, Rosetta compresa, dato che riceveva le mie poesie d'amore
tramite Francesco Pietro Franchi, scrupolosissimo postino oltre che
mio compagno di classe, e avendo io risposto fantozzianamente: “Beh,
un pochino sì, ma se piace anche a te, non ti rompo le scatole”, non
ha perso tanto tempo e, qualche anno dopo, se l'è anche sposata.
Ma voglio lasciar perdere con i subbugli ormonali e confusionali, e
torno al disastro che con gli innamoramenti tipici di quell'età non
ha niente a che fare.
Per me, a questo punto, il 10 ottobre 1963, sono tutti morti. Con
questo pensiero ben piantato in testa passo le successive mie
giornate, fino a quando, solo molti mesi dopo, vengo a sapere che
Donatella è sana e salva e solo uno degli altri si pensa possa
essere morto, ma non sono notizie certe. Uno dell’Iti, di cui non
ricordo il nome, che correva i cento metri alle gare studentesche
provinciali delle superiori.
Il pomeriggio successivo al riposo della prima notte, terminata
l’operazione del recupero dei cadaveri, riesco a contattare altri
quattro scout del Gruppo A.S.C.I. Mel 1. Lanfranco Da Canal, 18
anni, di Farra di Mel, anche lui reduce, a reciproca insaputa, da
un’operazione di recupero nella zona “delle Pagognane”, cioè un po’
più a monte del posto dove ho recuperato qualcosa anch’io.
Gioacchino Lot, 16 anni, di Col di Mel. I fratelli Renzo e Ivo Camin,
20 e 17 anni, di Marcador di Mel.
Decidiamo assieme di andare a Longarone a dare una mano e ci diamo
appuntamento davanti alla pompa di benzina di uno dei due tassisti
di Mel, per le sei della sera.
Perchè così tardi, alle sei di sera? Il sole è già tramontato, ma
vogliamo partecipare, almeno in parte, a una cerimonia funebre in
piazza, celebrata da monsignor Vittorio Battistin, parroco di Mel.
La cerimonia si svolge
proprio
davanti alla chiesa, per le sedici bare che sono dentro a un camion
militare e dentro ogni bara un morto, o quel che ne resta.
Prima della fine della cerimonia funebre, ci ritroviamo dal tassista
concordato, sullo stradone sotto Mel.
Per portarci tutti e cinque, con uno zainone a testa e una tenda da
campeggio (una Zingarella da quattro posti comodi che avevamo
pagato, quattro anni prima, quarantamila lire) occorreva una
macchina capiente e l’unica macchina capiente, allora, era quella di
Eugenio Comel, detto Genio, barista, benzinaio, meccanico e
tassista. Una Seicento multipla, con il davanti a strapiombo e il
motore dietro.
Partiamo in direzione di Longarone, seguendo il camion militare con
dentro le sedici bare. Non sappiamo assolutamente che cosa possiamo
fare ma sicuramente non ce la facciamo a non andare su, a Longarone.
A Ponte nelle Alpi c’è uno sbarramento, non si può proseguire. Ci
fermano i carabinieri e ci dicono che, per quella notte, dobbiamo
fermarci lì. Poi, l’indomani mattina, possiamo chiedere un passaggio
a un camion di militari, che sicuramente passerà di lì.
Mentre Lanfranco e gli altri piantano la tenda a venti metri dalla
strada e ad altrettanti venti dal greto del Piave, io mi accingo a
salutare e a ringraziare Comel per la sua gentilezza. Sono tempi in
cui, per me, la nozione di “solidarietà” è un dato che “deve” essere
ben radicato in tutti, soprattutto in una circostanza come quella.
Già si sa che Longarone è sparita e Comel sa bene che solo noi, di
Mel, stiamo andando su a dare una mano. Beh, mi fa tanti auguri, ma
mi chiede anche i soldi del viaggio. Ci rimango piuttosto male, ma
non gli dico nulla e lo pago con almeno metà dei soldi che mio nonno
mi ha dato prima di partire. Questa notte per me è impossibile
dormire perché sono ancora molto turbato dal comportamento di Comel
e perché, non conoscendo con esattezza ciò che è successo, ho il
timore che, dalle montagne intorno, qualcosa possa ancora
scatenarsi.
La mattina dopo, molto presto, come previsto dai carabinieri la sera
prima, cominciano a passare dei mezzi sia militari che civili. Ci
carica un camion di alpini che si stringono per far posto a me,
Lanfranco ed a un altro signore sconosciuto con un basco nero in
testa che, assieme a noi, sbucato dal nulla, sta facendo l’autostop.
Gli altri tre di noi salgono su di un camion civile, che segue a
ruota quello militare, e che trasporta assi di legno che, scopro
qualche ora dopo, servono per costruire delle bare.
Lanfranco non perde l’occasione di fare la conoscenza di quel
signore. Dice di essere arrivato in treno a Ponte nelle Alpi da
Treviso, via Belluno, di aver dormito in un alberghetto di Ponte
nelle Alpi, di essere un ex paracadutista dell’Aereonautica
francese, di aver appena smesso di dare una mano a Skopje, capitale
della Repubblica della Macedonia, dove un terremoto, quattro mesi
prima, ha distrutto mezza città, con migliaia e migliaia di morti.
Osservandolo bene, visto il suo modo di fare, penso che possa essere
un ex della Legione Straniera.
La sera stessa quel signore, invita tutti quelli che hanno lavorato
come lui nel cimitero dalla mattina alla sera, a farsi una bella
mangiata in una trattoria di Cadola e, cosa ancora più allettante,
una bella bevuta di qualsiasi liquido bevibile che non sia latte.
Offre lui. Non ricordo chi di noi, scout di Mel, va. Io non vado,
perché non me la sento di interrompere il lavoro che sto facendo.
Nemmeno Gioacchino Lot, precisissimo nella sua incredibile e
volonterosa ricostruzione dei fatti, ricorda chi, assieme a lui, sia
andato. Ma ricorda benissimo di esserci andato, assieme a un'altra
ventina di persone. Così scopre che quel signore è un medico
francese, il che non esclude la Legione
Straniera,
ed è specializzato in situazioni d'Emergenza e Catastrofi.
I direttori delle operazioni al cimitero sono medici legali sloveni,
i quali, nel 1963, sono ancora politicamente “oltre il muro” e
certamente non desiderano che un medico francese, che probabilmente
ne sa molto più di loro in situazioni d'Emergenza e Catastrofi,
possa dire la sua con autorevolezza su quello che c'è da fare. Solo
a distanza di molti anni, quando inizio a capire qualcosa del
funzionamento dei servizi segreti, comprendo la reticenza del medico
francese a svelare la sua vera identità.
Ma, tornando a me e a Lanfranco sul camion militare, con gli alpini,
lungo il viaggio su strade secondarie e a balzelloni, ci si da dei
vèci, a conferma di quanto detto prima sull’uso di questo termine.
Gli alpini sono tutti ragazzi veneti di venti, ventuno anni,
provenienti da una caserma di Belluno. Alla guida del mezzo un
sergente maggiore sui trentacinque anni, silenzioso e con i baffi e,
al suo fianco, un sottotenente di complemento, di ventidue anni, con
cui subito fraternizzo attraverso la finestrella tra il cassone e la
cabina.
Scendiamo tutti in un luogo misterioso, il cui nome al momento non
ricordo, anche se prima certamente ci sono già passato in Vespa con
mio padre, sulla strada di Cortina d'Ampezzo, dove mio padre, per
qualche mese, ha fatto il geometra per conto della birreria Pedavena:
Fortogna, frazione di Longarone.
Un prato lungo e largo, con una parete di rocce, alberi e siepi
selvatiche in fondo, dove si sistemano gli alpini. È il luogo dove
sono trasportati i cadaveri o i pezzi che di loro restano, da
qualsiasi posto lungo il Piave, fino alla
laguna
veneta, vengono ritrovati.
Questa è, e non solo per me (ma per me, tragicamente, solo la prima)
un’esperienza di incontro con la morte su larga scala, fatta di
corpi, tantissimi corpi, in molti casi mutilati, pezzi di corpi e,
quasi tutto, in via di putrefazione.
Solo a quel punto veniamo a conoscenza del fatto che la diga non è
crollata e che le vittime non sono morte per l’urto dell’acqua o per
annegamento, ma per lo schiacciamento e il soffocamento dovuto
all’aria che ha preceduto quell’enorme quantità velocissima di
acqua, alta 200 metri, che ha fatto crollare anche le case. Le case,
crollando, hanno seppellito o ucciso gente già morta o quasi.
L’acqua, salendo e poi ridiscendendo, ha lavato via tutto e
trascinato tutto nel Piave.
Longarone nel 1963, è un paese di emigranti. Oggi ce ne saranno
ancora, ma molti, molti meno. Ci vivono molte donne con anziani e
bambini, mentre la maggior parte degli uomini lavora all’estero.
Dobbiamo quindi prepararci ad accogliere questi emigranti che già
cominciano a far ritorno sin dal primo giorno successivo al
disastro.
Lo strazio del riconoscimento dei cadaveri. Chiedere le
caratteristiche somatiche dei parenti che sperano di ritrovare. I
corpi nudi accumulati, vengono portati lì con motocarri (anche con
un Ape), e con camion ribaltabili che li scaricano a decine su quel
prato, crescono, crescono di numero. All’inizio, appena arrivati
(cinquantotto ore dopo la tragedia) ce ne sono quattrocento e il
giorno dopo se ne contano già più di ottocento!
A dirigere le prime operazioni di soccorso, come già ho scritto,
sono operanti dei medici legali sloveni. Appena noi arriviamo,
saputo che sono uno studente di Medicina, mi arruolano all’istante,
fornendomi di guanti di gomma, di un po’ di mascherine e delle
precise indicazioni su quello che devo fare per tutto il tempo che
riesco a restare lì.
I
miei compiti consistono nel mettere i corpi dentro dei sacchi di
plastica trasparente che hanno portato loro dalla Slovenia (mi
sembra dall'Università di Lubiana) e nell'andare a un bancone
d’ingresso, con una tenda sopra, per accogliere e “gestire” i
parenti emigranti che stanno tornando. Quel bancone è presidiato da
alcuni abitanti della zona che se la sono cavata, e ci pensano ben
loro a stordire di sgnàpa i parenti e a tenerli fermi tra mille
bestemmie urlate. A me spetta di chiedere ai parenti le
caratteristiche fisiche di chi cercano, tornare in mezzo ai sacchi
di plastica con i corpi dentro, guardare con attenzione se qualcuno
di quei corpi corrisponde alla descrizione fornita e, in caso
positivo, tirare giù il sacco di plastica.
Per identificarli meglio devo controllare i segni di eventuali
cicatrici (generalmente interventi chirurgici) i denti mancanti o i
denti di metallo (il questionario sloveno è molto dettagliato!).
Solo quando sono proprio sicuro, anche di notte con la pila, ritorno
al banchetto, faccio un cenno di assenso ai familiari, ritorno con
loro da quel corpo e cerco di cavarmela come meglio posso…
Renzo Camin ha piantato la tenda su una collinetta, alla destra
dell’ingresso, dalla parte opposta a quella dove ci sono gli alpini,
che il primo mattino, bestemmiando come veneti, devono stare fermi
per sei ore, senza fare nulla, perché non arrivano “ordini
superiori”.
A un certo punto il sottotenente, d’accordo con il sergente maggiore
con i baffi, rischiando il carcere militare di Gaeta o Peschiera, dà
l’ordine ai soldati di rompere le righe e di cominciare ad aiutare
tutti gli altri che già da parecchie ore di fila stanno lavorando.
Tra questi molti abitanti del luogo, molti ex alpini anche anziani
con il loro inconfondibile cappello, provenienti da tutta Italia. E
poi tutti noi, scout di Mel, uno di Belluno giunto prima di noi, che
mi sembra sia Renzo Fant, e altri scout e rover che non riesco
nemmeno a salutare. A venti metri di distanza, per il sudore che mi
appanna sia gli occhiali sia gli occhi, non vedo per bene il loro
distintivo regionale di appartenenza, cucito sulla manica destra,
sotto quello indicante il gruppo e dunque la località esatta di
provenienza.
A tutti questi, dal giorno dopo si vanno aggiungendo, a Fortogna,
altri scout del gruppo di Feltre, che conosco bene e ci salutiamo da
lontano con il tipico saluto scout, e altri scout e rover di altre
province, soprattutto venete, ma non solo. Gli scout costruiscono
casse da morto senza coperchio, per metterci dentro le salme
contenute nei sacchetti di plastica trasparente e croci di legno sul
cui braccio orizzontale va scritto il nome dei corpi che, via via,
vengono riconosciuti. Mentre a Cadola e a Longarone alcuni scout e
rover di non so dove, sono arrivati addirittura prima di noi, da
Mel.
Renzo non regge la vista e il contatto con i cadaveri, così si dà un
gran daffare a distribuire a tutti, su ordine dei medici sloveni,
bevande calde, soprattutto latte.
Lanfranco e gli altri sono impegnati a costruire bare e croci, in
mezzo a un odore che non si può immaginare, se non si è mai stati
vicini a corpi umani in decomposizione. Un odore che si mischia con
quello di un liquido gettato a spruzzo sui vivi e sui morti dagli
sloveni, un liquido misterioso che, mi dicono, serve a disinfettare
e che avrei imparato a conoscere tre o quattro anni dopo,
frequentando l’Istituto di Anatomia Patologica di Modena.
Fanno buttare anche dei sacchi di polvere bianca su molti resti di
cadaveri, e questa no, non l’ho mai capita. Di che sostanza chimica
si tratta? Non è solo calce.
Svolgo il mio compito ininterrottamente per tre giorni, con due
notti in mezzo senza dormire, finché, sul finire del terzo giorno,
cado svenuto sul prato, a faccia in giù. Non ricordo chi mi riporta
a casa dai miei, a Mel, e nemmeno Lanfranco se lo ricorda. Lui
rimane lassù con gli altri ancora per tre giorni.
Ho un totale vuoto di memoria sul periodo immediatamente successivo.
Ricordo bene, invece, un grande dolore per la presunta perdita di
quegli amici dell’atletica leggera e per quella, fortunatamente
altrettanto presunta, della mia compagna di classe del liceo che
tanto mi piaceva.
Torno
a Longarone, ma non a Fortogna, dopo tre o quattro mesi, con
Giacchino Lot e Renzo Camin, sull'automobile di quest'ultimo.
Il commissario nazionale degli scout dell’A.S.C.I., Salvatore
Salvatori, mi ha scritto una lettera (a casa mia il telefono non
c’è) in cui mi chiede di raccogliere, sui luoghi della tragedia,
qualcosa di “significativo” da esporre a Bracciano (Provincia di
Roma), sede dei campi scuola necessari per ottenere il brevetto di
capo scout. Salvatore Salvatori penso venga sollecitato per questa
richiesta, rivolta proprio a me, dal commissario provinciale di
Belluno, maestro Alfonso De Salvador, e dal responsabile nazionale
per la Branca Esploratori, Gino Armeni, che un mese dopo la tragedia
mi ha scritto una lettera di ringraziamento e complimenti per il
lavoro svolto, con tanto di improvvisazione onorifica come “Riparto
Scout d'Onore”.
Il brevetto di “vice” l'avevo preso a Levico (provincia di Trento)
ed era materializzato in un pennacchietto bianco, da infilare, con
un bel fregio rotondo e argenteo con il giglio, sul cinturino del
cappello scout regolamentare, quello “canadese”.
Il brevetto di capo scout preso a Bracciano, viceversa, era
materializzato da un pennacchietto di colore verde. Verde era anche
il fazzoletto arrotolato, da tenere al collo, al posto di quello con
i colori tipici del gruppo scout d'appartenenza. Il fazzoletto verde
aveva cucito, sul triangolo dietro, un rettangolo con i colori del
club (“riservato”) di cui , molti anni prima, aveva fatto parte il
Generale di Cavalleria Robert Stephenson Smith Baden-Powell (il
padre fondatore degli scout) e due pezzetti di legno bruciacchiato
tenuti assieme da un cordino di cuoio, intrecciato al fazzoletto
(significanti i tizzoni del primo “fuoco”, o “bivacco”, che Baden
Powell condusse, con una ventina di ragazzi, nell'isola di Brownsea)
tenuti assieme da un cordino di cuoio, intrecciato al fazzoletto.
Il Generale Baden-Powell, aveva difeso la cittadella-fortezza di
Mafeking, in Sud Africa, ed era risultato vincente nell'assalto da
parte degli olandesi, nella “guerra coloniale dei Boeri”(1899-1900).
Guerra colonialista, combattuta e vinta, per il possesso dei
numerosi giacimenti di carbone e di diamanti nel Sud Africa di
allora, sia dagli olandesi che dagli inglesi che si scontravano tra
loro, e contro almeno una ventina di etnie locali, che non ne
volevano sapere di lasciare che gli invasori, impunemente,
prendessero possesso dei loro territori.
Comunque Baden-Powell, una volta ritornato in patria, dopo aver
fatto parte dei servizi segreti inglesi, ha iniziato ad interessarsi
seriamente di pedagogia e, in occasione di un Campo estivo
sperimentale con una ventina di ragazzi (vedi il “fuoco” o
“bivacco”, a cui ho accennato prima) ha gettato le basi dello
scoutismo, le cui fondamenta fossero il saper badare a se stessi e
lo spirito di servizio, enfatizzando la metodologia del lavoro in
piccoli gruppi, dell'esercizio fisico, e delle attività all'aria
aperta. Tali fondamenta sono tuttora ben presenti ai Capi Scout di
tutti gli Stati in cui sia presente lo scoutismo.
Da ricordare che il movimento scout, suddiviso al suo interno in una
quantità enorme di versioni, si è espanso in quasi tutto il mondo,
con l'esclusione dei paesi dittatoriali, come in Italia, durante il
ventennio fascista e ha sempre trovato il modo di coordinarsi in
associazioni formali e riconosciute come “legali” in tutti i paesi
d'appartenenza e di organizzare periodiche occasioni di confronto.
Un'altra caratteristica dei capi che si erano presi il brevetto a
Bracciano era quella di portare il cappello canadese - a tesa
perfettamente dritta, e per tenerla perfettamente dritta e un
pochino rigida si lavava ripetutamente il cappello con acqua molto
zuccherata - con le affossature tra le pieghe, diversamente da tutti
gli altri, sopra la faccia e la nuca.
Ma torniamo alla richiesta che mi sta facendo Salvatore Salvatori.
Longarone non l’ho ancora vista, e ciò che più di tutto mi colpisce,
non è tanto la parte distrutta, perché già me la sono immaginata per
bene, ma sono le case tagliate in due, come burro da un coltello.
Cucine, salotti, camere da letto… zac! Segate a metà, con metà
mobilia ancora intatta, a destra, verso il Cadore. E anche lì, come
in tutte le catastrofi, c'erano stati dei ladri...
Longarone è azzerato a valle e ancora intatto a monte. Deve essere
stato ben potente quel cuscino d’aria e quell’acqua, sparati come
proiettili dalla gola tra le montagne dell’ex torrente Vajont! Mi
guardo intorno un po’, per trovare qualcosa di “significativo”. Sto
pensando a un sasso o al mattone di una casa, ma getto l’occhio su
di un piccolo triciclo rosso, tutto ammaccato e contorto,
schiacciato dalle macerie delle case crollate o dai cingoli delle
ruspe.
Lo prendo con me, tenendolo in braccio come avevo tenuto in braccio
quel corpicino di due anni qualche mese prima, risalgo nella
macchina di Renzo con Gioacchino e, una volta tornato a Mel, metto
quel piccolo triciclo in un pacco che spedisco a Salvatore
Salvatori, a Roma. Quel triciclo è tuttora esposto al Campo Scuola
di Bracciano, ma non è più rosso: si è tutto arrugginito ed è un po'
verde.
Dopo un anno, un rappresentante del governo di allora (presidente
del consiglio: Giovanni Leone, ex padre costituente, futuro
presidente della Repubblica italiana prima di Pertini, avvocato
penalista di grido, subito dopo la tragedia sperticatosi in promesse
mai mantenute ai sopravvissuti, in seguito avvocato difensore dei
misfatti dell'E.N.E.L.) premia l’Associazione Scout Cattolici
Italiani con una medaglia di bronzo al valor civile, consegnata a
Rino Dolce, uno scout del Riparto Mel 1, che ha perso il padre,
operaio su alla diga, la sera della catastrofe, il cui corpo non è
mai stato ritrovato.
Ecco
perché ancor oggi non possiamo sapere il numero esatto delle vittime
del Vajont, mentre i corpi ritrovati furono circa duemila. Non tutti
i parenti o gli amici degli “spariti” ne hanno denunciato la
scomparsa o, anche se l’hanno fatto, la prefettura di Belluno ha
fatto finta di niente, come nel caso di quella corriera di turisti
tedeschi che passava di lì proprio a quell’ora.
E qui si comincia a entrare nella storia di una strage di stato
annunciata.
Queste cose le ho sapute tanti anni dopo, per merito di Marco
Paolini con la “sua orazione civile”, solo nel 1997 e, da allora, ho
cominciato a leggere e a vedere tutto quel che ho potuto, sul
Vajont. Mi sento dunque quasi costretto a indicare ai lettori di
questo articolo, un’elencazione dei nomi degli autori di libri, o
film, sul Vajont. Basta Google e/o Wikipedia e, girando un po’, si
può sapere tutto, o quasi. Dunque : Tina Merlin, Sandro Canestrini,
Marco Paolini, Marco Paolini e Gabriele Vacis, Marco Paolini e
Oliviero Ponte di Pino, Maurizio Reberschak, Mauro Corona, Gianni
Cameri, Renzo Martinelli, Lucia Vastano, Commissione parlamentare
d’inchiesta sul disastro del Vajont, Comune di Longarone, Fortogna,
Vajont, www.vajont.net, www.vajont.info, www.fondazionevajont.org.
Della sitografia fornitami, ringrazio Francesco Piero Franchi.
Comunque già allora, e da qualche anno, si diceva che alla diga
stava succedendo qualcosa : c’era chi aveva denunciato irregolarità.
Ma soprattutto responsabilità pesanti e criminali.
Le responsabilità civili e penali della strage sono anzitutto della
S.A.D.E. (Società Adriatica Di Elettricità), società privata che,
sia durante il ventennio fascista, sia in piena seconda guerra
mondiale, aveva ottenuto il permesso di entrare in possesso del
torrente Vajont senza pagare una lira, e di farci una fortuna con i
soldi dell’elettricità erogata a tutto il Veneto, costruendoci una
diga, pagata ovviamente dallo Stato, la diga più alta del mondo);
poi dell’E.N.E.L. (Ente Nazionale per l’Energia Elettrica) che un
anno prima della tragedia aveva “comperato” dalla S.A.D.E. sia la
diga che tutti i proventi futuri previsti. Cioè: un semplice
passaggio di proprietà per conto dello Stato, all'interno di se
stesso, senza che nessuna persona fisica potesse essere bene
individuata e, soprattutto, senza che nessuno, se non lo Stato,
sborsasse un soldo per l'acquisto, ed é qui la “genialata” del sopra
citato Giovanni Leone ; dei silenzi compiacenti di politici locali,
regionali e nazionali; di tecnici richiesti di svolgere perizie sia
sull’affidabilità della diga, sia sulla situazione idrogeologica
circostante.
Ma, a questo punto, cioé a livello di perizie idrogeologiche, c'è
un'encomiabile eccezione. Si tratta della perizia di un eminente
geologo austriaco, Leopold Muller, la cui consulenza era stata
richiesta dalla S.A.D.E. stessa, ma che era stata ignorata, vista la
sua lungimirante conclusione che non lasciava dubbi su una tragedia
immane, se la diga fosse stata messa in funzione “a regime”, cioè
con una pressione “intollerabile” per il Monte Toc, che non a
caso
si chiama Toc, perché da sempre al casca do a tòc, che la sera del 9
Ottobre 1963 ha proprio smesso di tollerare, ed è franato tutto d’un
botto sull’acqua sottostante, prendendo le mosse da una spaccatura,
prevista dal Muller, a “M” maiuscola, e che non è un miracolo
mariano.
Le responsabilità della tragedia, sia pure a diversi livelli, sono
anche dei funzionari provinciali, regionali e nazionali, anche
d’alto rango istituzionale come già ho scritto e riscritto; della
stampa e dei media già attivi nel non aver capito nulla di quello
che, quella sera, è accaduto, tanto da stendere non un velo, ma una
trapunta pietosa, su quanto sia l’ottimo Giorgio Bocca (su “Il
Giorno” dell’undici Ottobre 1963) che, soprattutto, ahimé, il mio
amato bellunese Dino Buzzati, ma da quel giorno non più così tanto
amato (sul “Corriere della sera”, dell’undici Ottobre 1963)
relazionano sulla tragedia, ambedue ascrivendo la responsabilità di
quanto accaduto solo, ed esclusivamente, alla forza cieca della
Natura.
Dino Buzzati, nato e cresciuto a due passi da Belluno, trasferitosi
a Milano, non ha mai fatto nulla per Belluno e per i bellunesi,
quando era già, ed è tuttora, un “grande” della letteratura italiana
del Novecento, se non scrivere qualche pagina scoperta per caso (a
Buzzati, o a qualcuno della sua famiglia travagliata, probabilmente
non interessava molto) dall' avvocato Perale (che per primo lo ha
fatto stampare come un libretto con magnifiche fotografie) fratello
del poeta bellunese Giano Perale, farmacista e amico di mio nonno.
Ora è stato ristampato dalla Comunità Montana Bellunese, in molte
più copie, con il titolo originario: “La mia Belluno”. Rosetta me lo
ha spedito poco tempo fa. Una perla, nella sterminata produzione di
Dino Buzzati! Lui, che ancora tornava nella sua villa vicino a
Belluno ogni anno, d'estate, almeno per qualche settimana,
addirittura scrive nell'articolo citato, ma non solo da me
“incriminato”: “La diga del Vajont era ed è un capolavoro. Anche dal
punto di vista estetico”. Dino Buzzati ! Di fronte a quel macello
pensa all'estetica! L’autore de “Il deserto dei tartari”, dei
“Sessanta racconti”, di “Un amore”... tre fra le letture da me
preferite negli anni del Liceo “Tiziano Vecellio”, di Belluno.
Per non parlare, poi, di Indro Montanelli che, dopo la sciagura, in
buona compagnia dei manifesti affissi in tutta Italia dalla
Democrazia Cristiana con la scritta: “Comunisti sciacalli”, sulle
pagine de “La Domenica del Corriere”, taccia di “sciacallaggio” Tina
Merlin, ex staffetta partigiana, giornalista de “l’Unità”,
corrispondente, allora, da Belluno, e in seguito da Milano, Vicenza
e Venezia, residente a Trichiana, a quattro chilometri dal mio
paese, che scrive già da tempo sia della tragedia annunciata, sia
dei colpevoli assassini di Stato, con eroico coraggio, molto
solitario, ma fortunatamente ben sostenuta da suo marito ex
partigiano Aldo Sirena e da molti residenti nella zona di Erto e
Casso, futura consigliere provinciale di Belluno per il P.C.I. dal
1964 al 1970.
Le copie de “l’Unità” che, nel 1963, vengono vendute nel suo e nel
mio Comune, sono in tutto cinque, e chi le compera (tranne Aldo
Cavalét, uno dei due proprietari delle due macellerie esistenti a
Mel, che quando è libero da impegni etilici ne fa orgogliosamente
una gran mostra) le deve nascondere tra le pagine de “Il
Gazzettino”, per non subire ritorsioni di vario genere da parte di
democristiani, tutti ex fascisti convinti, ma soprattutto ex
“neutrali” che, a quel punto, si sono già “riciclati” sin
dall’indomani della fine della guerra, visto che con la Democrazia
Cristiana si possono fare molti soldi, soprattutto quelli che i à
studià, e puntano a qualche carica pubblica redditizia,
puntualmente, prima o poi, ottenuta.
Tina Merlin, nel “prima”, scrive anzitutto ciò che apprende dai suoi
contatti con gli abitanti di Erto e Casso (paesi che erano, e sono,
dietro la diga, quando ancora “il dietro” era in Provincia di Udine
- ora di Pordenone - e “il davanti”, con il Piave, Longarone e gli
altri paesi spariti, miracolosamente restati indenni o quasi, e in
parte ricostruiti intorno) che continuano a sentire inquietanti
rumori provenire dal Monte Toc, e scrive anche ciò che studia con
attenzione sui documenti “giusti”, a proposito dello scandaloso
comportamento sia delle Istituzioni, sia della S.A.D.E.
Nel “dopo”, Tina Merlin continua a scrivere su “l’Unità” puntando
dritto il dito contro i veri responsabili, ed è a questo punto che
entra in scena il già citato Indro Montanelli. Il suo libro “Sulla
pelle viva. Come si costruisce una catastrofe” deve aspettare
vent’anni per trovare un editore che lo pubblichi. Che sia perché è
stata denunciata “per diffusione di notizie false e tendenziose atte
a turbare l’ordine pubblico”? Tina Merlin, comunque, viene assolta
da quel reato, a Milano, ma al giudice che l’assolve non passa per
niente nella testa che, forse, c’è da riaprire delle indagini nel
merito di quanto Tina Merlin sta denunciando.
D’altronde, Sandro Canestrini, difensore di parte civile delle
vittime del Vajont deve arrivare fino in Cassazione, che sposta il
processo da Belluno a L’Aquila, per legittima suspicione. Per
assistere, impotente, nonostante una sua magnifica arringa,
un’elegia che dovrebbe essere introdotta obbligatoriamente nei
programmi di studio delle scuole di ogni ordine e grado, alla
sentenza definitiva che commina pene molto lievi a degli assassini,
e ancora una volta, prende le vittime per i fondelli. L’Aquila!
Tragica anticipazione di un’altra, ben più recente catastrofe, ma
con la stessa presa per i fondelli delle vittime.
L’arringa di Canestrini è la parte più consistente del suo libro
“Vajont: genocidio di poveri”, Cierre Edizioni, 2003.
Tina Merlin e Sandro Canestrini, in occasioni e in contesti diversi,
ma sempre in difesa delle vittime, e in accusa degli speculatori
assassini, hanno contro di loro solo una parte del P.S.D.I. e del
P.S.I., ma tutta la Democrazia Cristiana, a partire proprio da
Giovanni Leone e Benigno Zaccagnini in giù, tutta ma proprio tutta.
Va però precisato che c’è una differenza tra i due citati:
diversamente da Zaccagnini, che è sempre stato una persona onesta, e
dunque tormentata per le tendenze criminali di molti dei suo i
“amici”(?), Leone ha interessi molto personali, come già specificato
sopra, nell’attaccare e sputtanare Tina Merlin.
Ora concludo con qualche annotazione, ancora molto personale,
riguardante la mia esperienza. Il Vajont è stato anche un esempio di
quell’”inquietudine padana”, trascurata troppo a lungo, di cui, in
altra sede, ho già scritto molto. Un’inquietudine che, nel caso
specifico, riguardava l’Italia intera, ma che, lassù, era intrisa di
paura, di molta paura.
Ora concludo con qualche annotazione, ancora molto personale,
riguardante la mia esperienza.
Desidero, allora, scrivere qualcosa sulla paura, anche se su questo
tema ho già scritto molto, essendo io, oltre che un chiacchierone,
anche un grafomane.
La madre di tutte le paure è la paura della morte, perché la morte
simboleggia ciò che più ci è ignoto e ciò che è meno controllabile.
Facendo una leggera digressione filosofica, mi viene una domanda: se
la madre di tutte le paure è la Morte, chi è il padre? Il padre è la
Vita, indissolubile compagno della Morte.
Vivo davvero, in quei giorni, e sulla mia pelle, un’esperienza
legata alla morte, alla paura e alle conseguenze che ne possono
derivare. Nei giorni di quell’evento, lì al Vajont, sicuramente
avverto con precisione la paura di qualcosa che può succedere, e
all'improvviso. Una paura che oggi chiamerei paura della
transitorietà, dell’impermanenza.
Essere di fronte a un’evenienza che di colpo spazza via migliaia di
persone... ecco, penso che la paura della morte affiora e
lentamente, ma inesorabilmente ci possiede, perché non la si elabora
sufficientemente quando ancora, almeno statisticamente , ne siamo un
pò lontani. Se realizziamo profondamente che siamo davvero
transitori e che davvero la nostra vita può terminare in qualsiasi
momento, siamo leggermente più sereni.
Nella scuola buddhista che io ho conosciuto, per esempio, ci si
mette di fronte alla pira funeraria e si assiste in silenzio, per
tutto il tempo che si vuole, a quello che succede. Questa
meditazione si chiama Màrana-Sati, ed è appunto la meditazione sulla
morte che è presente anche in alcune correnti dell’Induismo.
Osservare il cadavere che brucia lentamente e meditare in solitudine
è importante, altrimenti si rischia di rifugiarsi in considerazioni
filosofiche solo teoriche.
Ho vissuto, in occasione sia della tragedia del Vajont, sia in
quella del terremoto del Friuli tredici anni dopo, sia in occasione
di sventure molto personali, sia all’improvviso, sia in
meditazione-preghiera-contemplazione, la precipitazione nel mio
vuoto interiore, la perdita di me stesso, dei miei confini, delle
mie forme, e parallelamente ho avvertito un’energia allo stato puro.
Ritorno al cimitero di Fortogna dopo un anno dalla tragedia, con i
Gruppi scout di Feltre, Belluno e Mel. In quest'occasione, il più
alto in grado degli scout, rover e capi presenti, è il Commissario
Regionale dell'A.S.C.I. per la Branca Esploratori del Veneto, Carlo
Valerio, il quale presenzia alla “ Promessa Scout” di qualche
novizio, tra i quali il già citato Rino Dolce, orfano di padre
vittima del disastro. Nel 1964, in quel luogo, ci sono ancora solo
arbusti, prato e croci. E tanti morti, sotto.
Ci ritorno molti anni dopo, quando già il Cimitero di Fortogna
comincia ad essere un monumento nazionale, simile ai cimiteri
militari ben tenuti, con le lapidi piccolissime riportanti, quasi
tutte, il nome e/o l'età, generalmente tutte due le cose, di chi ci
sta lì sotto. Lapidi in file e righe ordinatissime, nel verde
brillante dell'erbetta ben curata. Piccole lapidi con i nomi anche
di chi mai è stato riconosciuto per lo stato in cui sono i suoi
resti al momento del suo ritrovamento, piccole lapidi di cui non è
stato ritrovato nulla, ma la cui scomparsa attorno alle ore
cruciali, è stata segnalata da qualcuno, generalmente da parenti.
All'entrata una costruzione, un museo che purtroppo la domenica è
chiuso, ma guardando attraverso i vetri vi si scorgono fotografie,
box, dépliants della Pro Loco di Longarone.
All'interno del Cimitero, sulla destra, una stele di vetro accoglie
i visitatori con una frase, tradotta in dodici lingue: Prima il
fragore dell'onda, poi il silenzio della morte, mai l'oblio della
memoria.
Questa frase mi commuove, ma mi commuove soprattutto perché il nome
dell'autrice è Rosetta Girotto. Di Rosetta, lo dico nuovamente, ero
stato follemente innamorato al liceo. Rosetta ha la passione delle
lingue, soprattutto antiche, oltre che aver insegnato qualche
materia letteraria proprio a Longarone. Gli allievi di Rosetta,
benevolmente, da quei tempi, chiamano quell'obelisco “la Stele di
Rosetta”.
Concludo con un ricordo della diga, e dedico il ricordo a mio padre.
Negli anni in cui frequento le medie (o il ginnasio, non ricordo
bene) mio padre, una decina d'anni prima della tragedia, mi
accompagna su, alla diga, con la sua Vespa color Vespa anni
Cinquanta. Allora, chi mai poteva pensare che sarebbe successo quel
che è successo dieci anni dopo?
Assieme camminiamo avanti e indietro due o tre volte, lungo il
camminamento proprio in cima alla diga: una stradina lunga lunga,
delimitata a valle e a monte solo da una ringhiera e da una rete
bassa. Se uno cammina lassù, e magari all'improvviso, come spesso in
montagna accade, arriva una folata di vento particolarmente forte,
le reti e le ringhiere non sono sufficienti per consentire a qualche
Vigile del fuoco o a qualche poliziotto, di ritrovare qualcosa di
significativo di ciò che resta del corpo di chi è volato via, né da
una parte, né dall'altra.
A 15 anni, amante delle esperienze “estreme” che coinvolgono il
corpo fisico, scavalco una ringhiera che si può scavalcare anche
senza tanta agilità e, tenendomi ben stretto a un paletto di ferro,
mi sporgo più che posso verso Longarone, avendo sotto di me il
vuoto, un vuoto di 261 metri.
A questo punto, tutto contento, chiamo mio padre: “Papà, guarda che
bello!”.
Le montagne attorno piene di alberi d'ogni colore, sia a destra che
a sinistra. Laggiù in fondo vedo una parte di Longarone, sento il
suono tipico dell'acqua di un torrente molto sotto di me, che poi è
il Vajont. L'altra parte del camminamento non mi interessa perché
c'è solo un laghetto che non ho la minima idea a che cosa possa
servire (ricordo che il “mostro” ha iniziato ad essere operativo
solo nel 1960).
Il risultato però è lo sguardo di ghiaccio di mio padre, che già, di
suo, ha gli occhi azzurro chiari. Non si è, fino a questo punto,
accorto di nulla. Ed è questo, ciò di cui si rimprovera di più, una
volta a casa, con mia madre.
Non mi sgrida, non mi picchia, è l'uomo più buono che io abbia mai
conosciuto. Buono davvero, ma che, avendo combattuto in guerra come
ufficiale dei carabinieri in luoghi (ora solo turistici, con
centinaia di sedie a sdraio sopra cadaveri di cui nessuno, se non i
vecchi del posto, sanno nulla) dove si uccideva quasi più con il
silenzio, una sola parola ed il coltello, che con le armi da fuoco,
non cade nella trappola di rispondermi, quando, tornando in Vespa a
Mel, io fingo di interessarmi alle modalità di funzionamento di una
diga. Niente. Silenzio. Il suo volto impassibile.
Ma una volta a casa, la sera, a Mel, dopo una mia spontanea
confessione, dato che mio padre ovviamente tace, ma ha sempre quello
sguardo, mio nonno, mia nonna e soprattutto mia madre, vengono a
conoscenza della mia bravata. Per me, a questo punto, inizia un
vajont domestico, durato almeno una settimana, senza morti, ma con
la mia anima ferita dalla vergogna di aver fatto qualcosa di tanto
stupido.
Mio nonno si limita a dirmi: “Te piasèa far l'eroe, ah! Te vede ben
a far almanco tre mesi de trincea, dopo se pol parlar de far i
eroi!”.
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