Centro Studi e Documentazione Scout "Don Ugo De Lucchi"

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Ricordo di Don Ugo De Lucchi


Il 23 aprile del 1959 moriva Don Ugo De Lucchi, cappellano a S. Maria del Rovere.Sono passati 45 anni da allora, ma il ricordo, in tutti coloro che ebbero la fortuna di conoscerlo, è ancora vivissimo.
E se ne scriviamo, non è solo per rendergli ancora una volta un caro e doveroso omaggio, ma per far conoscere a coloro che sono venuti dopo di lui, una straordinaria figura di prete educatore.

Era nato a Riese, il 20 febbraio 1920, da una umile famiglia di agricoltori, come il suo conterraneo papa Pio X° nei confronti del quale egli conservò sempre una grande ammirazione.
Ordinato sacerdote, iniziò la sua attività pastorale a S. Maria del Rovere, una parrocchia che era quasi un paesotto, allora nettamente staccato dalla città da cui era ben distinto da campi coltivati e prati.

Erano gli anni difficili della fine della guerra e del primo dopoguerra, ancora cupi di lutti, di tragiche vendette, di miseria e di rancori, con una popolazione stremata e smarrita, anni durante i quali la pietà era andata perduta per lasciar posto all’odio dell’uno contro l’altro.

Il giovane cappellano si buttò con tutto l’ardore di cui disponeva a tentare di sanare piaghe e laceranti ferite spirituali, consolando e confortando da una parte, proponendo ed agendo dall’altra.
Ma il campo che egli predilesse fu quello dell’educazione della gioventù, la prima a soffrire della perdita di valori e la più soggetta ad assorbire messaggi rancorosi ed estremistici.

Don Ugo aveva il fascino particolare dell’uomo mite e colto, che tanto attira i giovani, sempre. Ascoltava con pazienza, si faceva felice con i lieti, consolatore con chi pativa, rassicurante con chi dubitava, trascinatore con gli incerti.

Possedeva una grande cultura umanistica, di cui non faceva sfoggio, mai, ma di cui si serviva per aiutare chi studiava e chi cercava; non era digiuno, però, neppure di conoscenze scientifiche, sulle quali era sempre aggiornato. Ma era soprattutto un profondo e fine conoscitore di musica.

Approntò un gruppo teatrale con i giovani, con i quali sostenne diverse rappresentazioni, umili, certo, nelle sale parrocchiali. Ma quanta sapienza nel capire e proporre il messaggio educativo sgorgante dall’apprendimento di una parte, dal presentarsi di fronte ad un pubblico, dalla soddisfazione che nasce dalla buona riuscita di uno sforzo, nato per divertire e divertirsi!

All’interno del mondo giovanile, tuttavia, con un’intuizione che lascia stupiti per gli anni in cui fu messa in pratica, predilesse lo scoutismo, appena risorto dalle macerie della guerra, dopo gli anni bui della proibizione fascista.
Tutte queste straordinarie premesse furono improvvisamente annientate dalla grave malattia che colpì il giovane cappellano.

Fu costretto a lasciare la parrocchia e a trascorrere tre lunghi anni in luoghi di cura nel bellunese prima e nell’altopiano di Asiago poi.
Anche da questi luoghi di sofferenza, comunque, tenne annodato il legame con i suoi ragazzi, attraverso una fitta corrispondenza, per mezzo della quale li esortava a continuare nella strada intrapresa, sempre nutrendo la speranza di un ritorno imminente. 

Che per grazia di Dio avvenne, finalmente!

Era costretto a portare un busto rigido di gesso che doveva infastidirlo non poco, specie durante i mesi caldi, ma non se ne lagnò mai, offrendo a noi ragazzi un esempio straordinario di accettazione del dolore.

Per il suo ritorno gli era stata preparata, nelle opere parrocchiali, un’umile stanza con attigua un’ancor più umile cameretta. Ma quella stanza divenne il simbolo stesso dell’accoglienza. Dal primo pomeriggio fino a notte egli accettava tutti coloro che avevano bisogno di lui. Ed erano tanti: dapprima i bambini che si recavano a fare i compiti, poi i ragazzi e dopo cena i giovani e gli adulti.

Si parlava, si ascoltava musica classica che egli, se possibile, spiegava con competenza e finezza, si giocava talvolta anche a carte, perché anche questo era un mezzo per avvicinare le persone, per creare un rapporto di confidenza che poteva facilitare i discorsi più personali e più impegnati. Accoglieva tutti, indipendentemente dalla cultura, dalle convinzioni personali, dalla assiduità alle funzioni religiose. Ma quante persone sono state aiutate a superare momenti difficili e talvolta angosciosi in quella povera stanza! Tutto quel poco che possedeva era di tutti: sul suo pianoforte suonavano tutti, i suoi libri erano letti da tutti, i suoi dischi erano ascoltati da tutti.

Aveva ricavato una sorta di mobile dalla cassa di un pianoforte a coda, le poltrone erano sedili di camion adattati ad una struttura di ferro: perché tutti gli volevano bene e lo aiutavano, come potevano.

Veramente quella stanza fu per noi ragazzi l’emblema della “garrula povertà” e della “perfetta letizia” francescane! 

Nella sua ricca biblioteca aveva tutto un settore di autori umoristici italiani , Guareschi, Simili, Manzoni, Mosca, e stranieri, Jerome, Wodehouse, Thackeray, Twain. Attraverso la loro lettura ci insegnò l’humour, l’autoironia, il saper relativizzare le cose, il vedere il lato bello anche nelle situazioni difficili, a non prenderci mai troppo sul serio. E per degli adolescenti questo fu un insegnamento straordinario, che ci evitò i “drammi” tipici dei primi innamoramenti, ma che ci accompagnò anche per tutta la vita di adulti.

Certamente ognuno di noi conserva il “suo” Don Ugo nel ricordo e nel cuore.
Il mio è quello di un sacerdote-educatore che praticava la pedagogia del Bello: le bellezze della natura, l’arte, la letteratura, la musica erano così amate da lui che ci trasmise con estrema immediatezza un concetto fondamentale: Dio non è solo somma giustizia, somma bontà, ma è anche somma bellezza. E tutto quello che ha profuso nel creato è lì ad aspettare che qualcuno lo colga. Così, ognuno di noi ha il dovere di scoprire, difendere ed alimentare quella scintilla della Sua sapienza che ha immesso in ciascuno. 

Attraverso il gusto del Bello, Don Ugo sapeva che le anime dei suoi ragazzi si sarebbero elevate, rifiutando le bassezze di certa parte del mondo.

Questa stessa attenzione la riservava al coro parrocchiale che era formato da umile gente: operai, artigiani, contadini, qualche studente. Ma attraverso la sua competenza e la sua passione, queste persone si trasformavano e davano nel canto il meglio di sé, fino a raggiungere livelli di eccellenza.

Le donne allora non erano ammesse al coro, per cui le voci dei soprani e dei contralti erano fornite dalle voci bianche dei bambini, la cura delle quali era particolarmente laboriosa, perché cambiavano con il passare dell’età. Ma io ricordo ancora l’emozione grandissima provata all’esecuzione dell’Alleluja dal Messia di Haendel o al Sanctus dal Te Deum di Perosi, in cui le voci bianche si innalzano sempre più, come voci angeliche, io penso.
Il suo spirito di servizio non conosceva sosta: malgrado le difficoltà fisiche andava a trovare, in Lambretta, coloro che sapeva bisognosi di una parola amica, di un gesto di fratellanza, di un conforto spirituale.

La sua generosità lo spinse fino a donare del denaro, sottratto a quel pochissimo che aveva, perché immaginava che qualcuno ne avesse ancora più bisogno.

Quest’uomo eccezionale si spense il tardo pomeriggio del 23 aprile 1959, giorno di S. Giorgio, il patrono dei suoi scout. Ma non morì solo, perché c’era nella sua stanza un ragazzo che suonava il pianoforte e gli scouts che si preparavano ai giochi per ricordare il santo patrono.

Fu uno shock per tutti, ma specie per i suoi giovani che si sentirono improvvisamente soli.
A distanza di tanto tempo quei giovani, con il patrocinio della parrocchia di Santa Maria del Rovere, stanno operando affinché le spoglie, sepolte nella tomba di famiglia a Riese, siano traslate nel luogo del suo apostolato, perché c’è ancora tanta gente che lo ricorda con affetto e perché la sua presenza possa costituire un perenne stimolo a fare il bene. 


Claudio Favaretto 

La sintesi è stata pubblicata sul Gazzettino del 22 aprile del 2004

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