Don Giuseppe Pettenuzzo
UN PRETE AMICO
(Don Rodolfo Budini – 05/02/2021)
Parlare di don Giuseppe è come aprire un fiume inarrestabile di ricordi ed è difficile la scelta.
Inizio dall’aspetto per me più importante: la grande capacità di ascolto e paziente dialogo. Questo suo stile è assimilabile allo stile di Gesù. Come per esempio con la
samaritana o con l’estremo tentativo di far cambiare idea a Giuda, chiamandolo “amico” al momento dell’arresto. Con le persone, con il parroco che veniva da un’altra epoca e non accettava volentieri che il suo cappellano, che abitava in oratorio, sistemasse una doccia nel bagno in corridoio. Un dialogo che cercava di capire pazientemente le ragioni dell’uno e dell’altro, per invitare ad
un passaggio di pace o di soluzione.
Un dialogo con i giovani che non frequentavano e che stavano seduti sulla gradinata della chiesa. Un dialogo con le tante situazioni di dolore o povertà, come poi
conobbe a largo raggio come direttore della Caritas diocesana.
Un dialogo con il sorriso, che parla più dei ragionamenti, un dialogo che guarda in profondità e più in la dei problemi dell’oggi.
Io ero un ragazzetto adolescente, poi coinvolto con la vita della parrocchia tramite lo scautismo. Don Giuseppe mi aiutò ad aprirmi anche ad altre realtà e occasioni di
fede. Capitava che lo incrociavo e mi diceva “sei libero stasera?” - “si” – “che ne dici, c’è un incontro interessante con don Firmino, andiamo assieme?” – “si, verrò” – così allargavo lo sguardo. Oppure “c’è da dare una mano, dei volontari stanno ricostruendo una casa, puoi donare qualche sabato?” Piano piano mi ha aiutato a vivere la vita come servizio, fino ad arrivare a un campo
scout nel 1980 in cui parlando gli dissi che a volte mi domandavo se non ero adatto a diventare prete.
Sapevo di parlare a un amico e piano piano mi ha seguito aiutando il mio cammino di ricerca. Entrai in seminario nel 1981 a 23 anni. Mi piaceva il suo stile di
parrocchia che spingeva i vari gruppi a incontrarsi, superando il dualismo scout o A.C.R., anche con gite in bicicletta, corse campestri e invitandoci a conoscere alcune realtà delicate della comunità parrocchiale.
Ho partecipato ad alcune messe celebrate dentro le case, come per esempio a “La nostra famiglia”.
Ricordo alcune volte alle riunioni di Clan in cui, a un certo punto, si vedeva che stava per crollare dal sonno … però resisteva, però c’era. La sua presenza diceva
l’importanza di quell’incontro. Andando a trovarlo nella sua stanza ero affascinato dai libri e mi rendevo conto della mia ignoranza sulle cose di chiesa. “Mi presti i nuovi catechismi?” “Non li ho mai visti”. “Mi presti un bel libretto?” – “certo”.
Anch’io, come tutti i giovani, criticavo la chiesa perché aveva troppi soldi o perché i preti non si sposavano, e lui con pazienza mi apriva finestre nuove e così
imparavo che le cose sono complesse e che hanno tante sfaccettature.
Lo vedevo come un uomo ,forte, un atleta, un calciatore, un ciclista. Solo più tardi ho saputo che tutto questo sport era una medicina per prevenire un ipotetico infarto
che gli era stato pronosticata. La sua specialità era il salto. Salto della scalinata della chiesa, salto per toccare i soffitti. Da giovane in seminario lo chiamavano “salta – canta”.
Certo ho visto in lui la fede in Gesù Risorto, nella celebrazione della messa, nella predica, nella confessione, nel raccogliersi per una semplice preghiera. Anche lui,
come tutti, aveva i suoi difetti, ma sono i limiti umani di cui sono impastati i santi.
Vero che vado per le lunghe e allora mi fermo a 3 episodi vissuti da prete.
Una volta l’ho incontrato a una mostra di pittura, scoprendo che anche lui amava il bello e che la vita del prete non è sempre stare sui problemi o correre come se dovessimo salvare
il mondo. Ancora un incontro mentre facevo la spesa in un supermercato con i prezzi bassi, quella volta apprezzando la mia scelta disse: “non devo più insegnarti niente”. Naturalmente non è vero. Tutta la vita, con un po’ di umiltà, rimaniamo apprendisti cristiani e ben volentieri accogliamo insegnamenti da chiunque.
Infine un incontro breve ma lunghissimo. Senza parole ma pieno di luce. Don Giuseppe era in Casa del Clero, paralizzato, non poteva parlare, ma cosciente. Mi sono
avvicinato al letto e ho detto poche parole. Non credo potesse vedermi. Prendendogli la mano ho detto “ciao don Giuseppe, sono don Rodolfo. Ti ringrazio di tutto. Grazie”. La sua risposta fu una lacrima lieve. Una lacrima di amicizia.
Alcuni giorni dopo morì lasciando il suo ricordo di un amore donato in tutta la diocesi. È parte di noi. È parte della mia vita e della mia storia.
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