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		  Claudio Favaretto
		è nato nel 1941 a Treviso, città da cui si è 
		allontanato raramente. 
		Compiuti forzatamente studi tecnici per 
		necessità familiari, dopo essersi diplomato perito chimico, trovato 
		lavoro come insegnante di disegno in una scuola professionale, l'anno 
		successivo, con laborioso salto acrobatico, ottenne la licenza 
		magistrale che gli consentì di frequentare a Padova la facoltà di 
		Magistero, seguendo finalmente la sua vocazione. 
		Laureatosi con il massimo dei voti e la lode 
		in Materie Letterarie con la tesi in Storia dell'Arte sui Riccati, una 
		famiglia di matematici e studiosi di architettura fioriti nella seconda 
		metà del Settecento a Treviso, ha trascorso molti anni insegnando 
		animosamente lettere nei Licei scientifici. 
		Ma non ha mai tralasciato la sua passione per 
		l'arte, utilizzando ogni occasione per far conoscere ai propri ed altrui 
		alunni quanto di bello la nostra città e tutto il contado potevano 
		offrire. 
		Sposato, padre di quattro figli e nonno 
		felice di quattro nipotini [per il momento], ha dato alle stampe due 
		libri, editi da ADLE Edizioni di Padova. 
		Il primo, 'IL Melograno", edito nel 1998, 
		raccoglie una serie di vicende e  
		 ricordi autobiografici, il secondo, 'Il 
		compagno di Tomaso" del 2006, è un racconto lungo, ambientato nella 
		Treviso medievale al tempo di Tomaso da Modena. 
		Nel 2017, ha dato alla stampa il libro 
		"TREVISO e il suo territorio" Piazza editore. 
		Da ultimo nel aprile del 2023 ha pubblicato 
		con l'Arte Grafica Casale sul Sile il libretto "I SEGRETI della Cappella 
		Malchiostro - Duomo di Treviso" 
		Ha collaborato a lungo con la rivista "Taste 
		Vin" con articoli tesi a far conoscere l'arte, la storia e le tradizioni 
		della Marca trevigiana. 
		Da diversi anni è direttore della biblioteca 
		del capitolo del duomo di Treviso. 
		 
		 
		
		da "Taste Vin" n.6/2018 
		Sant’Augusta di Serravalle 
		di Claudio Favaretto
		
		 Capita, 
		scorrendo un elenco di santi, di imbattersi in un nome pressoché 
		sconosciuto, al di là di una località ben precisa. Li sentiamo, questi 
		santi, molto domestici, come se appartenessero alle nostre famiglie. 
		E’ questo il caso di sant’Augusta che viene sempre accompagnata dal 
		luogo dove fu martirizzata: Serravalle di Vittorio Veneto. 
		Le vicende della sua vita sono leggendarie ma è ben viva la profonda 
		venerazione di cui gode da secoli, specialmente fra i Vittoriesi. 
		Le notizie che la riguardano ci sono state tramandate nel 1581 da un 
		certo Minuccio Minucci, conterraneo della santa e segretario del papa 
		Clemente VIII. Sono quindi molto lontane dall’epoca in cui visse 
		Augusta. E’ vero che ogni leggenda conserva in sé un nucleo di verità, 
		in questo caso resa più concreta da alcuni dati storici. 
		I più antichi (1234) risalgono al Medio Evo e citano il “monte di 
		sant’Augusta”. Ciò significa che a quell’epoca la santa era sicuramente 
		venerata. Anche gli Statuti di Serravalle parlano di lei. 
		Ben poco si conosce anche del santuario che sorge sul monte Marcantone 
		che ancor oggi viene popolarmente indicato come il monte di 
		sant’Augusta. 
		Con ogni probabilità su quel luogo sorgeva una postazione militare che 
		dominava lo stretto passaggio dell’unica via percorribile dalla montagna 
		verso la pianura. Il nome stesso di “Serravalle” ribadisce la morfologia 
		del luogo. 
		Sicuramente i Romani fortificarono quella strozzatura viaria costruendo 
		il “castrum”, cioè un accampamento militare difeso da poderose mura. Era 
		così importante quel luogo che fu utilizzato in seguito da tutti i 
		vincitori delle contese, sicuramente dai Longobardi e poi dai Franchi. 
		Ma niente ci impedisce di pensare che alla caduta dell’Impero romano, i 
		primi popoli barbari provenienti da est, i Visigoti, si siano 
		impadroniti di tutte le fortezze già appartenute ai Romani. 
		Testimonianze di quel tempo sono visibili ancor oggi come la torre di 
		segnalazione all’inizio della val Lapisina e i resti di… 
		 
		 
		da "Taste Vin" n.5/2018 
		San Martino di Tours 
		di Claudio Favaretto 
		
		 L’autunno 
		ormai avanzato ci fa desiderare ancora un po’ di tepore, quel tepore che 
		arriva con la cosiddetta “estate di san Martino”. 
		E’ questo uno dei santi più popolari il cui culto è diffuso in tutta 
		l’Europa e in modo estremamente significativo in Italia. Basta scorrere 
		l’elenco alla fine di un atlante geografico o stradale per vedere quante 
		località grandi e piccole portino il suo nome. E quante chiese, 
		basiliche, monasteri siano a lui dedicati. 
		Quali sono i motivi che lo hanno reso così celebre e venerato? Io penso 
		che la genuina sensibilità popolare sia stata colpita soprattutto dal 
		gesto famoso compiuto da Martino dividendo il suo mantello per darne 
		metà al povero intirizzito dal freddo. 
		E’ un gesto che commuove per l’immediatezza: Martino non ci pensa su un 
		attimo e con un colpo di spada compie un gesto di gratuita generosità, 
		di vera carità cristiana. 
		Eppure anche questo santo viene da lontano. 
		Era nato in una città della Pannonia, l’odierna Ungheria, nel 316 cioè 
		pochi anni dopo l’Editto di Costantino che concedeva la libertà di culto 
		ai cristiani. Dico questo perché Martino è uno dei primi santi non 
		martiri della storia del Cristianesimo. 
		Il padre era un ufficiale dell’esercito romano di stanza in quella 
		lontana regione dell’impero. Per questo il bambino viene chiamato 
		Martino, cioè piccolo Marte, il dio della guerra. 
		Ma il padre fu presto trasferito a Pavia per ragioni di servizio. Come 
		ogni figlio di veterani, anche il piccolo era destinato alla carriera 
		militare che abbracciò, sotto la spinta del padre, a 15 anni con 
		giuramento. In breve tempo il ragazzo si fece benvolere ed apprezzare al 
		punto da essere promosso “circitor”, incarico che prevedeva l’ispezione 
		notturna dei posti di guardia. 
		Durante una di queste ispezioni, mentre era di guarnigione ad Amiens, in 
		Gallia, vide un povero seminudo intirizzito dal gelo della notte 
		invernale a cui di slancio diede la metà del suo caldo mantello che 
		aveva diviso con la spada. 
		Questo… 
		 
		
		 
		da "Taste Vin" n.6/2017 
		La religiosità popolare: i 
		Santi Ausiliatori 
		di 
		Claudio Favaretto
		
		 Sono 
		chiamati santi ausiliatori un gruppo di 14 santi che venivano invocati 
		ciascuno per un particolare aspetto della vita quotidiana. L’elenco non 
		fu identico dovunque per cui si possono trovare differenze da luogo a 
		luogo. Così san Biagio era invocato contro il mal di gola, santa Barbara 
		contro i fulmini e la morte improvvisa, san Cristoforo contro gli 
		uragani, e così via. 
		In Italia il loro culto collettivo non è molto attestato, mentre in 
		Germania è diffuso, soprattutto nella Baviera dove probabilmente nacque 
		e si diffuse, specialmente negli anni delle grandi epidemie a metà del 
		1300. 
		A metà del 1700 nel comune di Bad Staffelstein,nella diocesi di 
		Bamberga, fu costruita, in onore degli ausiliatori, una splendida 
		basilica in stile barocco, méta di migliaia di pellegrini ogni anno. 
		Invece non appartiene all’elenco ufficiale, pur essendo stato uno dei 
		santi più venerati, sant’Antonio abate. 
		Fino a qualche anno fa, infatti, chi entrava in una stalla delle nostre 
		contrade notava subito, attaccata ad un palo di sostegno o all’interno 
		della porta, un’immagine sacra: un vecchio dalla lunga barba attorniato 
		dagli animali tipici di una fattoria. 
		Quel santo era sant’Antonio abate, da non confondersi con l’omonimo 
		sant’Antonio da Padova. Il santo abate era celebrato il 17 gennaio con 
		una grande festa che culminava nella benedizione degli animali che un 
		tempo erano addirittura portati nel sagrato della chiesa. 
		Credo che attualmente il santo non sia più di moda, almeno nell’Italia 
		del nord, perché la modernità ha sostituito la religiosità con 
		l’efficienza tecnologica e poi perché la cosiddetta civiltà contadina é 
		scomparsa. Sono ormai ben poche le imprese agricole a conduzione 
		famigliare: oggi si tende alla creazione di vasti possedimenti agricoli 
		gestiti con macchinari sempre più sofisticati mentre le stalle accolgono 
		numerosi capi di bestiame, allevati con i più moderni mezzi, dalla 
		somministrazione del foraggio alla mungitura. 
		Ma vale la pena di… 
		
		 
		
		 
		da "Taste Vin" n. 
		di febbraio 2007 
		La chiesetta dei 
		Santi Gervasio e Protasio 
		di 
		Claudio Favaretto 
		
		Il nostro territorio ospita numerose chiesette campestri, segno di 
		un’antica e fedele religiosità tramandata nei secoli. Spesso sono 
		costruzioni modeste dal punto di vista artistico, perché erette dalla 
		pietà popolare che voleva manifestare con la sua operosità 
		l’attaccamento alla fede dei padri, alla quale si rivolgeva in 
		particolar modo per chiedere aiuto contro le avversità metereologiche o 
		per ringraziare dopo un raccolto fruttuoso.  
		E così, anche la più mediocre conserva il fascino di un mondo ancorato 
		ai ritmi millenari delle stagioni, a un tempo in cui la massima parte 
		della popolazione traeva sostentamento dal lavoro dei campi. In tante di 
		queste chiesette si concludeva il giro, attraverso i campi, delle 
		”rogazioni”, parola che deriva dal latino “rogare”, cioè chiedere 
		l’aiuto divino, naturalmente, contro i temporali estivi o contro la 
		siccità, cose che potevano rovinare interi raccolti e ridurre le 
		famiglie contadine alla miseria e alla fame. Erano pratiche risalenti 
		ancora agli antichi Romani sotto il nome di “ambarvali”, cioè di “feste 
		attorno ai campi” guidate da sacerdoti con lo stesso nome, che con il 
		passare del tempo erano state
		 cristianizzate, 
		pur mantenendone l’aspetto esteriore.  
		Queste pratiche religiose si svolgevano di buon mattino a partire dal 
		mese di giugno. Il parroco, indossate la cotta e la stola, accompagnato 
		da uno o più chierichetti, sostava presso un altarino improvvisato in 
		mezzo ai campi o presso un “albero sacro” come se ne incontra ancora 
		qualcuno: di solito si trattava di un carpino scapitozzato i cui giovani 
		rami venivano piegati a formare quasi una nicchia in cui si poneva 
		un’immagine sacra. Recitate alcune preghiere, il sacerdote benediva i 
		campi circostanti.  
		Di tali funzioni liturgiche esiste ormai, purtroppo, solo il ricordo 
		delle persone più anziane. In qualcuna delle chiesette sopra ricordate 
		alle volte sono racchiusi dei veri capolavori artistici, spesso 
		malauguratamente rovinati dal tempo e dall’incuria degli uomini.  
		E’ questo il caso proprio della chiesetta dei Santi Gervasio e Protasio 
		che appare improvvisa in mezzo alla campagna di S. Pelagio, nella 
		periferia nord-ovest del comune di Treviso, in una località chiamata 
		“Roncole”.  
		Il nome merita una piccola spiegazione. Esistono diverse località, 
		alcune diventate paesi importanti come Roncadelle o più ancora Roncade, 
		che derivano dallo stesso termine, cioè “roncare”, vale a dire tagliare 
		con la roncola, disboscare.  
		E’ evidente che gli antichi abitanti di S. Pelagio dovettero sottrarre 
		al bosco planiziale che ricopriva la zona i campi da coltivare, con un 
		lavoro ciclopico di dissodamento e di successiva sistemazione.  
		Questo accresce fascino ed attesa alla nostra chiesetta, anche per i 
		Santi a cui è dedicata, poco comuni nel nostro territorio, ma ben 
		presenti a Milano, in Lombardia e in Francia.  
		La leggenda che avvolge la loro storia ne fece due gemelli, giustiziati 
		nel terzo secolo e i cui corpi furono rinvenuti da S. Ambrogio vescovo 
		di Milano e da lui deposti sotto l’altare della basilica che porta il 
		suo nome.  
		Ci si chiede come mai sia sorta in un punto così isolato, lontano da 
		ogni importante via di comunicazione. L’impossibilità di fornire una 
		risposta rende ancora più misteriosa la costruzione che sembra risalire 
		addirittura al Mille, anche se per alcuni studiosi la data è da 
		spostarsi più avanti di uno-due secoli, cioè al XII-XIII° secolo. Resta, 
		comunque, una preziosa reliquia del passato.  
		L’edificio si staglia per il suo colore chiaro contro il verde dei prati 
		o il bruno dei campi da poco arati. La si raggiunge percorrendo una 
		breve carrareccia che lambisce un ampio vigneto a merlot e a cabernet 
		sauvignon, a sinistra, e delle costruzioni agricole a destra. Sorge su 
		un leggerissimo rialzo del terreno, forse una volta più marcato.  
		Si presenta come una semplice aula rettangolare, forse ampliata rispetto 
		all’impianto originale, conclusa, però, da un’abside cilindrica, 
		tipicamente romanica. Si resta subito colpiti dal suo orientamento, 
		secondo l’antica usanza di orientare l’altare a est e l’ingresso 
		principale a ovest. Tutta l’arte medievale è simbolica, per cui tale 
		orientamento aveva lo scopo di ricordare che l’altare dove si celebra il 
		mistero eucaristico, rappresenta la Luce del mondo, Cristo, quella 
		stessa luce che, nell’armonia del Creato, viene portata dal sole che 
		sorge.  
		Quando si esce dalla chiesa si va incontro all’occaso, al tramonto del 
		sole, che ricorda l’effimero della nostra vita terrena. La facciata è 
		mossa da un accenno di protiro, cioè di portico, mentre sulla parte a 
		mezzogiorno si apre la porta secondaria.  
		Oggi la parete meridionale presenta quattro fori: due
		 mezze 
		lune, di evidente recente esecuzione e due monofore molto antiche, che 
		sono coronate dall’armilla, un giro di mattoni posti longitudinalmente, 
		elemento usuale dell’architettura romanica. L’intradosso dell’arco, cioè 
		lo spessore del muro, porta tracce evidenti di decorazione, forse a 
		fresco. La cornice che sostiene il tetto è a “dentelli di sega”, altro 
		indizio di architettura medievale, come si può riscontrare in numerose 
		case coeve di Treviso. Probabilmente i muri erano intonacati, come si 
		può notare dalla facciata e da qualche frammento ancora esistente nella 
		parete sud. Ma dove l’intonaco è caduto si può scorgere l’estrema 
		povertà del materiale usato: ciottoli di fiume, intervallati, di tanto 
		in tanto, da un rigo di mattoni. Il tetto è stato recentemente 
		restaurato, ripristinando la consueta copertura a coppi alla veneta.
		 
		Sovrasta la costruzione un campaniletto cosiddetto “a vela”, molto 
		comune nelle nostre chiesette campestri, con due fori che ospitano 
		ciascuno una campanella. Si tratta di un’aggiunta molto recente, 
		probabilmente ottocentesca, ma che non stona affatto nell’insieme.  
		Entrando dalla porta principale, quella ad ovest, lo sguardo abbraccia 
		subito tutto il volume: l’aula rettangolare e la piccola abside. Ci si 
		accorge subito che l’arco trionfale, quello che conduce all’abside, ha 
		l’imposta molto ribassata, come se il piano del pavimento fosse stato 
		rialzato. Ma ciò non può essere, perché si trova a livello del piano di 
		campagna ed è difficile pensare che un tempo si dovesse scendere uno 
		scalino per entrare nella chiesa. Il pavimento, da poco sistemato, è a 
		tavelle di cotto, il soffitto, di recente restaurato, a capriate (e un 
		po’ stona il nuovo del legno con la vetusta costruzione!), i muri sono 
		per lo più spogli. Ma nell’abside si nota l’esistenza di tracce di un 
		antichissimo affresco, a sinistra della piccola feritoia aperta 
		esattamente al centro del semicatino, di una Madonna con il Bambino e 
		Santa, di fattura due-trecentesca, su una tonalità fredda di 
		verdi-azzurri.  
		Purtroppo questi lacerti sono tutto quello che resta di un affresco che 
		Mario Botter, nel 1953, in un articolo pubblicato sul Gazzettino, 
		definiva “un magnifico affresco del XIII° secolo” il cui stato di 
		conservazione, allora, era “buono”! Secondo lo studioso, tale affresco 
		servì da modello a “quello prodigiosamente conservatosi nella parete 
		meridionale della chiesa”. In effetti, nei pressi della porta laterale, 
		si può ammirare, malgrado lo stato di degrado, una splendida opera. Si 
		tratta di una “Sacra conversazione”, cioè di un gruppo di Santi che 
		attorniano la figura centrale, che è quella della Madonna che allatta il 
		Bambino. La Vergine è assisa in un trono modesto dallo schienale arcuato 
		che si collega a due montanti rotondi terminanti in due sfere di legno, 
		quasi il lavoro di un falegname del tempo. Alla sua destra, in piedi, 
		sta la figura aureolata di san Gervasio che reca nelle mani forse dei 
		rami, il segno del suo martirio (fu, infatti, flagellato a morte), 
		mentre alla sua sinistra si staglia la figura di una santa, identificata 
		come S. Maria Maddalena, con la mano destra alzata e la sinistra forse 
		reggente un vaso di unguenti, ma l’affresco è abraso e non consente una 
		precisa lettura. Ancora più a sinistra conclude l’opera un santo stante, 
		Protasio, con un particolare copricapo, per indicare la sua professione 
		di medico, e con le mani molto discoste, quasi a reggere quella spada 
		che lo giustiziò. I manti di tutti i personaggi sono di colore caldo, 
		rosso-bruno, con le pieghe sottolineate da profonde ombreggiature, salvo 
		la veste dell’ultimo santo, che è di colore verde.Bisogna ricordare, 
		infine, una figura di Santo, forse di esecuzione secentesca, a destra 
		dell’arco trionfale, rovinata in più punti.  
		E’ veramente un peccato che questo gioiello di fede e di arte sia stato 
		trascurato al punto da mettere a rischio la stessa sopravvivenza degli 
		affreschi, come purtroppo è già successo con quello dell’abside. 
		Affreschi di quell’epoca ne esistono ben pochi anche in città, per cui 
		sarebbe necessario che gli uffici competenti intervenissero subito, per 
		evitare una perdita ulteriore del nostro patrimonio artistico.  
		 
		
		 
		dalla stampa locale ("Vita del popolo" o "Gazzettino"?) 
		Dante Alighieri, Treviso e la Biblioteca Capitolare 
		di 
		Claudio Favaretto 
		
		Settecento anni fa, nel settembre del 1321, moriva a Ravenna, Dante 
		Alighieri. 
		Come sì sa, mentre era a Roma per un'ambasceria presso il papa, 
		Bonifacio VIII, la fazione dei Neri s'impadronì con la violenza di 
		Firenze, scatenando l'odio contro la fazione avversa, quella dei Bianchi 
		cui Dante apparteneva. E il poeta, accusato falsamente di baratteria, 
		oggi si direbbe di tangenti e di guadagni illeciti, fu condannato 
		all'esilio e alla confisca dei suoi beni, una tristissima usanza molto 
		comune in quegli anni turbolenti. 
		Da allora il poeta, dopo un tentativo di rientrare a Firenze con la 
		forza con i Bianchi esuli come lui, deluso e infastidito dalla compagnia 
		"malvagia ed empia", se ne staccò e iniziò a peregrinare per l'Italia, 
		in cerca di accoglienza. I biografi ci informano che si recò in 
		Lunigiana, a Verona, ad Arezzo, ancora a Verona, finendo a Ravenna dove 
		morì per una febbre malarica presa a Venezia. Ma, per noi, la curiosità 
		più viva è se Dante sia stato anche a Treviso. Ormai la critica è 
		convinta di sì. Anche se non ci sono documenti precisi, nelle sue opere 
		alcuni richiami parlano della nostra città in modo esplicito così da 
		stabilire perfino gli anni del suo soggiorno, tra il 1305 e il 1306, 
		periodo in cui Treviso era governata dalla signoria dei Caminesi o da 
		Camino.  
		Quali sono gli indizi? Il più noto è quello che si
		 incontro 
		nel canto IX del Paradiso, là dove si individua la città con il famoso 
		verso “Ià dove Sile e Cagnan s'accompagna".  
		Si dice, giustamente, che questo verso poteva scriverlo solo chi aveva 
		visto con i propri occhi che le due correnti, quella limpida del Sile e 
		quella torbida del Cagnan Grande o della Pescheria, non si fondono 
		subito, ma restano distinte per un bel po', si accompagnano, appunto, 
		scendendo verso valle. 
		Il secondo indizio ci viene offerto dal canto XVI del Purgatorio dove 
		un'anima dice a Dante che la corruzione si era diffusa nel mondo e che 
		poche erano rimaste le persone oneste, tra cui, appunto "il buon 
		Gherardo", cioè Gherardo da Camino, signore di Treviso, morto nel 1307.
		 
		Il terzo indizio riporta ancora il nome del Caminese e proviene da 
		un'altra opera di Dante, Il Convivio: "[Poniamo] che Gherardo da Cammino 
		fosse stato nepote del più vile villano che mai bevesse del Sile o del 
		Cagnano, [e che il ricordo del suo antenato non si fosse ancora spento, 
		chi oserebbe definire Gherardo un uomo rozzo?]". Le lodi fanno pensare a 
		un debito di riconoscenza di Dante nei confronti del Signore di Treviso. 
		La Biblioteca Capitolare conserva alcuni frammenti pergamenacei di 
		eccezionale valore storico perché appartengono al primo commento 
		completo alla Divina Commedia composto da Iacomo Della Lana prima del 
		1328, pochissimi anni dopo la morte del poeta. L’autore, nato a Bologna, 
		seguì la famiglia che si trasferì a Venezia, forse per interessi 
		commerciali. Secondo la più recente critica storica, fu qui che lacomo 
		compose il suo commento, come testimonia la presenza di parecchie parole 
		in lingua veneta. Ecco uno dei frammenti, che presenta il canto XXIII 
		dell'Inferno:  
		"Taciti, soli, sança”.
		In questo capitolo itende l’autore doppo alchune poetiche parole et 
		fabulose de tratar dela pena deli ypocriti liquali ello punisse nella 
		sexta bolgia circa la qual intericione è da savere che si chomo dixe 
		bacone ne la ex posicione deli uocabuli jpocrita siè a dire fictor è 
		çoè". In questo capitolo l'autore, dopo alcune parole poetiche e 
		fantastiche, intende trattare della pena degli ipocriti che egli punisce 
		nella sesta bolgia nei riguardi della quale bisogna sapere che, come 
		dice Bacone nella spiegazione dei vocaboli, ipocrita vuol dire falso, 
		cioè...". 
		
		 
		 
		 
		
		 
		dalla stampa locale ("Vita del popolo" o "Gazzettino"?) 
		Nuove scoperte alla Biblioteca Capitolare 
		Eccezionali Capolavori in campo musicale 
		di 
		Claudio Favaretto 
		
		 Sempre 
		più studiosi svolgono le loro ricerche nella Capitolare, prezioso 
		scrigno in parte ancora da scoprire. 
		Il patrimonio musicale, grazie alla prudenza di mons. D’Alessi durante i 
		bombardamenti e la distruzione della Seconda guerra mondiale, è vasto e 
		prezioso. 
		
		Il tesoro custodito nella Capitolare è stato ancora una volta al centro 
		di studi accurati.Dopo il recente lavoro di don Alessandro Bellezza che 
		ha studiato il messale Vetus, un messale di inizio secolo XIV, che mette 
		nuova luce sul legame tra la città di Treviso e il rito patriarchino 
		(Alessandro Bellezza, Un messale votivo veneziano. Treviso, 
		Biblioteca Capitolare della Cattedrale l.99(4)ff.1-65. Marcianum Press, 
		2022), nel mese di luglio si è laureata con il massimo del punteggio e 
		la lode al Dipartimento di Musicologia e dei Beni Culturali 
		dell’Università di Pavia (sede Cremona) Anna Martini, giovane musicologa 
		trevigiana che ha esaminato due codici musicali presenti in biblioteca. 
		Si tratta dei codici I-TVc24a/b che testimoniano numerosi brani bicorali 
		- e dunque con due cori spazialmente distanti tra loro e che creavano un 
		grandioso e spettacolare effetto stereofonico, in uso presso la cappella 
		trevigiana nel corso del XVI secolo. Più nel dettaglio, la studiosa ha 
		curato l'edizione critica dei brani anonimi presti nei codici, 
		proponendo la paternitá di alcuni di essi a grandi compositori del 
		Cinquecento. Inoltre, ha ipotizzato la datazione di questi codici agli 
		anni '30 del XVI secolo, aggiungendo dunque un tassello di conoscenza 
		non solo sulla storia musicale, ma anche sulla storia della città di 
		Treviso e sull'attività della Cappella musicale del Duomo. 
		Per molti trevigiani la- biblioteca Capitolare è un'illustre sconosciuta 
		mentre, invece, custodisce capolavori eccezionali, specialmente nel 
		campo musicale. Malgrado lo scempio subito dal terribile e mai 
		abbastanza esecrato bombardamento del 7 aprile 1944 compiuto dagli aerei 
		anglo-americani,. il patrimonio musicologico è ancora vasto e prezioso. 
		Il salvataggio di una buona parte del tesoro musicale si deve alla 
		prudenza di mons. D'Alessi, allora responsabile della biblioteca, che 
		trasferì fuori città quanto poté, proteggendo così dalla distruzione 
		certa testi di fondamentale importanza. Ne è un esempio l'Odehcaton 
		(1501), la prima stampa musicale a caratteri mobili al mondo. 
		Nel Rinascimento la Cappella musicale del Duomo godette, infatti, di 
		fama internazionale, annoverando tra i suoi direttori famosi musicisti 
		come Francesco Santacroce, Niccolò Olivetto, e Giovanni Nasco. 
		Grazie agli studiosi che continuano a svolgere un appassionato lavoro di 
		ricerca, le scoperte continuano anche ai giorni nostri . La già citata 
		Anna Martini ha scovato l'importante Antifonario stampato da Petrus 
		Liechtenstein a Venezia nel 1558, unico esemplare al mondo. Mentre il 
		prof. Paolo Cagnin, assiduo frequentatore della Capitolare, ha trovato, 
		nel fondo documentario, antiche carte musicali con notazione quadrata, 
		che necessitano di uno studio approfondito per una migliore 
		catalogazione. Per questo, la biblioteca Capitolare continua a rivelarsi 
		come un prezioso scrigno, in parte ancora da scoprire. 
		 
		 
		 
		 
		 
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