Centro Studi e Documentazione Scout "Don Ugo De Lucchi"
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Un metodo singolare di pastorale giovanile
Il ricordo ha spesso un valore unicamente soggettivo e coinvolge persone, che hanno vissuto positivamente la stessa esperienza, in un sentimento appagante, la nostalgia.
Quando un amico ci lascia, quanto più significative sono state per noi la sua personalità e la sua vicenda, tanto più si ha la sensazione che un pezzo della nostra vita se ne vada con lui. Il ricordo di don Ugo non è solo questo. Il numero di persone che hanno avuto la fortuna di conoscerlo non è molto grande, considerata la brevità della sua vita: morto a 39 anni, di cui solo 15 di sacerdozio.
Ma il suo stile di vita può avere un significato anche per i molti che non l’hanno conosciuto, perché si traduceva naturalmente, quasi inconsapevolmente, in un metodo educativo e pastorale basato essenzialmente su due valori: amicizia e cultura. Don Ugo De Lucchi, cappellano a Santa Maria del Rovere, incaricato particolarmente della cura della gioventù (in particolare scouts - dei quali io allora ero un capo), non andava in cerca dei ragazzi, non li rincorreva, non li attirava a sé organizzando tornei di calcio o altre attività, ma semplicemente li attendeva e li accoglieva nella sua stanza, presso l’Oratorio Don Bosco.
La sua stanza: ricordo, immersi in un beato disordine, una libreria, un tavolo, poche sedie, un pianoforte, un giradischi e lui, seduto nella sua poltrona, la figura tozza, un faccione sorridente e gli occhi ammiccanti dietro gli spessi occhiali, montati in tartaruga.
Don Ugo offriva ai suoi amici, piccoli e grandi, le belle cose in cui credeva e che gli rendevano piacevole la vita. La religione, il catechismo, l’apostolato? Quelli venivano dopo e talvolta restavano quasi sottintesi alle cose che porgeva per prime: una conversazione serena, affabile, interessante, confidenziale, sempre rispettosa, mai pettegola; un disco (musica classica) da ascoltare insieme con l’intenditore o da far apprezzare al principiante; un libro o un quaderno, spesse volte portati a lui per imparare: sì, perché la stanza di don Ugo era la sede di un piccolo grande dopo-scuola pubblico-privato, informale, gratuito, dove i figli del popolo (la definizione è calzante) trovavano validi sussidi al loro più o meno fortunato sapere scolastico.
Oppure scoprivano qualcosa di nuovo: per molti la musica, sia come sensibilizzazione e conoscenza, sia come apprendimento. Era lui che insegnava con competenza, senza sussiego, con un entusiasmo contagioso che trasmetteva agli allievi, qualcuno dei quali proseguiva poi autonomamente gli studi. E la trasmissione della fede? La guida spirituale? Al di fuori delle sedi ufficiali - la chiesa, il coro parrocchiale, le associazioni presenti nell’ Oratorio - l’incontro con don Ugo costituiva un’occasione di formazione secondaria, non meno importante, ma mai imposta, quasi sempre richiesta alla stessa stregua di una "ripetizione" scolastica o di una lezione di pianoforte.
Ecco perché si può parlare di un metodo singolare di pastorale giovanile che può essere un modello valido per tutti, anche se connaturato alla sua personalità di uomo e di prete, che certamente considerava (anche se probabilmente non l’avrà mai esplicitato) tra i fondamenti naturali della fede, oltre che l’amore anche l’estetica.
Quel giorno in cui mi telefonarono che era morto improvvisamente, là in Oratorio, sentii salirmi in gola un urlo di disperazione, un "no" di incredulità e di ribellione, che si tradusse in una corsa affannosa fino alla sua stanza, dove già era composta la salma. Era la prima volta - per me come per altri giovani - che mi scontravo coscientemente con la morte improvvisa e prematura, avvertita come violenta sottrazione di un amico prezioso.
Ora resta il dolce ricordo di una persona cara che aiutava tutti a orientarsi nella vita; nella propria vicenda umana, costellata di problemi, ma anche allietata da cose belle come l’amicizia, la musica, l’arte, il pensiero, naturali presupposti della fede e prefigurazioni del regno dei cieli.
Paolo Demattè