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VALDO SE N'È ANDATO AVANTI. "Valdo Moretti, 45 anni, trovato morto ai bordi della strada, un passato da tossicodipendente". Sapete come sono i giornalisti: mettono parole per fare colpo e mica si interessano sul perché uno stesse percorrendo in bici una strada. Valdo Moretti non è un grande nome dello scoutismo; è il prototipo dei tanti che offrono una decina d'anni della propria vita come capi o aiuto capi con l'intenzione di aiutare qualche ragazzo, e poi se ne escono dal giro, salvo rimanere nel cuore di molti. E poi è l'affermazione assoluta che lo Spirito è come il vento e soffia dove vuole. Io non sono la persona più adatta a parlare dell'infanzia di Valdo: quand'ero scout non mi venivano certo a raccontare i particolari su quell'aiuto capo così fuori dalle righe. So solo di un'infanzia e di una giovinezza difficili e di una famiglia disastrata. Della sua presunta dipendenza dalla droga non ne so molto. A dire il vero non ho nessun indizio, neanche da parte di altri, che mi porti a crederlo un tossicodipendente. Io mi ricordo di Valdo che, nei primi anni '80, fu mandato a far servizio nel nostro riparto di Silea (allora era del Treviso 7°) perché era arrivato un ragazzino down. Valdo lo seguiva ovunque sotto il sole o sotto la pioggia, dalla tenda alla latrina. Passavano ore in Q.G. a parlare e disegnare con pazienza e dedizione infinita. Valdo incuriosiva anche per il suo look. Lo si trovava sempre in bicicletta, solo per un breve periodo ebbe una vecchia Lambretta su cui tutto il riparto imparò a correre. Una volta, con spirito da primato, ci salimmo in 14 con lui alla guida; facemmo solo qualche metro ma me lo ricordo ancora. Era capace di arrivare in ciabatte in pieno inverno e la giacca a vento era sempre la stessa anche fuori delle attività, macchiaticcia e sempre più lisa. Perché Valdo non aveva molti soldi ma nemmeno aveva velleità di lussi e lustrini, non era geloso della Lambretta né desiderava vestirsi in modo da essere considerato uno per bene. Aveva un'altra idea dell'apparire. Portava la nostra uniforme con cura ma all'Eurojam del 1984 rideva dei francesi, che non toccavano l'orifiamma senza guanti bianchi immacolati e contemporaneamente indossavano dei calzini luridi. Spirito libero, forse anarchico, contestatore di ogni idea ma non con l'intento di demolire, piuttosto con la preoccupazione di chiarire ogni aspetto, di evincere ogni vizio, di farci capire e poi toccava a noi scegliere (perché fu il primo a trattarci da grandi). Strimpellava la chitarra e ci spiegava i testi delle canzoni: il Generale di De Gregori diventava occasione per parlare dell'assurdità della guerra ai nostri occhi e di come possa essere "bella anche se fa male" agli occhi dei potenti. Ci spiegava l'omertà del Pescatore di De Andrè, che vuole affermare con ogni mezzo di credere nella bontà dell'uomo, anche a costo di infrangere le leggi. Anni dopo capimmo che seminava pacifismo, disobbedienza civica, umiltà, responsabilità delle proprie azioni, gusto del poco e del semplice, ricerca dell'essenziale. E soprattutto libertà, indipendenza a costo di pagare per le proprie convinzioni con l'emarginazione. A vederlo non gli davi un soldo, un incedere flemmatico, un parlare calmo, riflessivo, alla ricerca della parola giusta, come se cercasse sempre di rivelarti qualcosa di ineffabile con termini che i vocabolari non contemplano. O forse sapeva già che saresti stato un altro a non capire la profondità di quello che stava dicendo. Naso piccolo sotto gli occhiali, sorriso con denti che portavano il peso delle esperienze passate. Dico sempre che Valdo mi ha insegnato il Servizio più di chiunque altro. Controllava le costruzioni da campo saltandoci sopra. Un anno mi demolì tre volte un tavolino per attrezzi in cucina. Mi prese da parte: "Tu che sei il capo squadriglia devi sempre pensare a cosa succederebbe se crollasse il tavolino con una pentola d'olio bollente e ci fosse lì davanti un novizietto. Tu sei responsabile dei tuoi ragazzi". Quando mi affannavo per far girare una squadriglia che non voleva girare, e mi lamentavo che non c'era tempo per fare nulla mi diede la sua facile spiegazione: "Il problema è che vuoi fare tutto tu e non perché, come dici, vuoi lasciare gli altri più liberi, ma perché sei troppo pignolo e non ti fidi di loro. Ma come potrai mai fidarti se non insegni loro le cose facendogliele fare?". Mi spronava a stare coi miei squadriglieri ogni momento, dal lavare le pentole al giocare. Sapeva che dopo pochi mesi sarei passato al Clan, ma per il momento il mio posto era ancora quello, perché si sta dove serve e non dove si vuole. Fu il primo a parlarmi di come il modo migliore perché uno impari qualsiasi cosa è quello di dargli elementi e di aprirgli le strade, ma facendo sempre in modo che sia lui ad arrivarci come una conquista (anni dopo scoprii essere la maieutica). Non diventò mai capo unità, non era affidabile perché imprevedibile (tanto gli faceva una preghiera quanto una bestemmia) o, più probabilmente, non gliene importò mai tanto di avere tutta quella responsabilità e sistematicità di ruolo. Un po' alla volta lo perdemmo di vista salvo incontrarlo di tanto in tanto per strada o in ospedale, dove lavorava con lo stesso spirito di sempre: brontolando serviva il paziente fino all'ultimo, e intanto lo educava a vivere la malattia con coraggio, senza capricci e senza demoralizzarsi, e ad avere rispetto di chi, come lui, è sì lì per aiutarlo ma ha pur sempre una dignità. Quando c'incontrammo l'ultima volta (era il 26 gennaio 2003, quindici giorni fa) parlammo soprattutto di un suo amico di sangue che aveva rivisto dopo tanto tempo. Sapevamo entrambi delle grandi fatiche di quest'ultimo e più volte ne parlammo preoccupati. Ma quella volta Valdo era felice perché l'aveva visto per strada. L'altro non si era fermato a salutarlo, forse non l'aveva nemmeno visto: "non importa se non mi ha salutato, ma io l'ho visto bene, era in bici, vestito elegante e curato, stava bene, si vedeva. Spero di incontrarlo presto. Ma sono contento perché vuol dire che se la passa bene. Sono contento per lui." Valdo era sempre contento per gli altri, ma quanto sarà stato felice lui in questa vita? Non lo so. Di sicuro a molti di noi ha dato la chiave della felicità. Qualcuno l'ha saputa raccogliere e qualcuno no. O forse lo farà più tardi, in altri tempi, in altri modi. Perché lo Spirito è come il vento: soffia dove vuole. 14 febbraio 2003 Alberto Sponchiado |
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