Canta filomena (*)

Mendicavamo canti di usignoli
per le siepi di acero campestre,
in notti - immensità basilicali –
di maggio, ormai più di vent’anni fa.
Nel silenzio serale si sentiva
venire il canto vivido e solenne,
“L’usignolo!” dicevi e si partiva
per le “Verine” verso San Paè
perché nel nostro giovane giardino
- troppo piccoli gli alberi –
non veniva a cantare filomena,
la schiva, timorosa cantatrice
diffidente, dal trillo cristallino,
dalla fonda armonia incantatrice.
 
Asfalto, case, stravoltati i sensi
di percorsi, di fossi secolari,
cancelli, muri, fiotti grigio cenere
di glicine straniera e non c’è più
una siepe-foresta, intrico oscuro,
grembo, ricetto, provvido e sicuro
vallo allo spazio aperto,
 

 

(*)   Anticamente così veniva chiamato l’usignolo

 

 

ora ... il deserto
animato di spettri, vivi e spenti,
affaccendati e inutili, rottami
prima del crollo, prima del naufragio.
E tu morta. E l’unico rifugio
il bosco che una volta era un giardino.
- La nostra sorte cadde
su luoghi deliziosi -
Là nel fitto dei càrpini frondosi
in queste notti canta l’usignolo.
Proprio vicino a casa, sai... vicino.
Io sto immagato ad ascoltarlo...
solo.

16 Maggio 1990